Mi ricordo il Bartolo briao che dormiva durante il sound check di una band svedese. Era l’evento del mese a Pistoia. La band era numerosa, avevano i cori, erano dei ragazzi molto educati, per l’occasione erano venute con loro anche le famiglie. Il Bartolo calzava un cappello da cowboy con una spilletta degli Stati confederati e un completo su misura con cravattino texano. Russava così forte che il cantante si fece alzare il volume delle spie sbigottito. In platea, la mano di Luca svaccato su una sedia con la testa all’indietro, ciondolava sopra un bicchiere di Negroni ammezzato. Era una serata noiosa, con una band noiosa in una provincia noiosa: Pistoia detta Tristoia.
[pullquote]Erano una sorta di famiglia, una cricca di gente che faceva squadra. Il loro pallino? Spaccare. Essere fighi con la chitarra, qualsiasi cosa volesse dire.[/pullquote]
Il ghiaccio galleggiava nel bicchiere. Arrivò pure il sindaco perché eravamo in un locale del comune e c’era qualche stronzata con il patrocinio di mezzo. Così tutti gli facevano i salamelecchi. Il Bartolo si svegliò cisposo e andò a mettersi in fila tra degli sconosciuti, barcollando, a stringergli la mano. Si sentiva l’energia elettrostatica nell’aria, forse Marcello tentò di fermarlo. Io guardavo ipnotizzato quella mano callosa, con la palla numero otto tatuata e altri segni stinti che afferrava quella gracilina e bianca del politico. Sembrava una zampa di gallo che strizza le palle a un neonato. Il sindaco, forse per rompere il ghiaccio del Bartolo che lo fissava bieco in silenzio, senza conoscerlo, senza dire nulla, fece l’errore di chiedergli che spilletta avesse sul cappello. La risposta: è il Texas Dio Bestia! è rimasta negli annali. Il gelo negli occhi dei suoi assistenti fu impagabile. Il silenzio del sindaco durò una vita, lo portarono via con una scusa. Mi batteva il cuore, avevo organizzato io la serata e speravo di prendere in gestione quel posto. Ma sapevo che l’avrebbero assegnato con un bando truccato a un barista amico loro. Solite cazzate. Ero giovane, non riuscivo a ribellarmi nel modo giusto, me la menavo. Così fissavo le mani di Luca e mi ricordavo che aveva mandato affanculo il capo turno in fabbrica che voleva farlo produrre di più. Aveva detto picche, che i macchinari erano pericolosi e lui con quelle dita ci doveva fare gli assoli di chitarra. Poi sempre le mani. Quelle di Ale che obbliga me e Marcus a farci sniffare i polpastrelli per poi farci realizzare che sapevano di passera. E noi giù a ridere come pazzi in un pomeriggio d’agosto.
Luca Bartolini detto “Il Bartolo”, luglio 2008
Io vengo da un posto in cui non c’è niente, la Valdinievole, una palude sconociuta tra Pistoia e Lucca roccaforte di rumeni e albanesi, camionisti e tipi allampanati. Il deserto. Avevamo bisogno di eroi. A un certo punto, nei primi anni duemila, tutti sappiamo che laggiù è successo qualcosa. Personalmente, posso vantarmi di aver conosciuto il rock and roll e non l’ho trovato nelle band americane, nella lingua fuori degli Stones, nei grandi. Il rock and roll erano dei tipi assurdi che abitavano tra Margine Coperta, il Gusci, la Nievole, Montecatini, l’Anchione e Santa Croce sull’Arno. Erano una sorta di famiglia, una cricca di gente che faceva squadra a modo proprio. Il loro pallino? Spaccare. Essere fighi con la chitarra, qualsiasi cosa volesse dire. “L’esercito dei chitarristi” lo chiamava Marcello.
[pullquote]Avevamo tutti la maglietta dei Draghi, font bianco e un Ape 50 stilizzato nel mezzo. Era il simbolo della nostra terra, dei vecchi al bar, di cosa eravamo noi.[/pullquote]
Tutti questi massoni del sound, nel mondo civile vivevano sotto copertura, dandosi una parvenza di normalità per placare mogli e fidanzate e per portare a casa lo stipendio. Questo li rendeva, ai miei occhi, quasi normali, anzi li sviliva un po’. Ma fu un grande errore. I chitarristi erano gente comune che noi tutti ragazzetti nullafacenti, avevamo investito della responsabilità di redimere le nostre esistenze scialbe, mentre loro cantavano e suonavano, che è la cosa più psicomagica della nostra cultura. Erano eroi e facevano i lavori più disparati rendendosi ancora più leggendari: uno il rappresentante di prodotti alimentari, un’altro aveva una ditta di primi piatti precotti, uno si alzava a mezzogiorno e diceva a tutti che aveva da tagliare l’erba, un’altro ancora non aveva mai lavorato è così via. Oppure. Uno aveva distrutto diverse auto e in un incidente c’era quasi morta anche la sua donna. Uno era stato in una comunità, aveva pure tentato una rapina. Era bellissimo, secco come il tipo dei Verve.
Marcello detto “Marz”, Los Dragos reunion 2012
Nella Valdinievole si suonava, la voce si spargeva, la gente passava a fare un salto anche da fuori. Nacquero molte band, dai Golden Showers ai Cosmotron, ma la punta di diamante fu solo una. Quella da cui tutto iniziò. Si chiamavano Los Dragos ed erano in tre: Marcello detto “Marz”, Sergio e Fabio, per tutti: “BillyBoy”. Sergio era il batterista, bellissimo, identico a Brandon Lee ne Il Corvo, con una Yamaha Custom nera sempre serio e silenzioso, le tipe erano pazze di lui. Arrivava la sera all’Irish Pub, l’unico punto di ritrovo che avevamo, si metteva sul muretto e fumava e ti fissava, la cosa più cazzuta e macha del mondo. Fabio, cintura nera di karate con la erre moscia e il tono di voce sempre sopra di due tacche era un ragazzone onnivoro (una volta è quasi morto per aver mangiato un pesce intero ed essersi intossicato ingoiando TUTTI i chiodi di garofano che ornavano il piatto ignaro che fossero decorativi); parlava a mitraglia, ossessionato dalla musica e da un’idea del successo distorta, simile a quella che può avere un ragazzino di dieci anni cresciuto alla tv tipo: caaaazzo diventiamo famosi e viaggiamo e sfasciamo gli hotel poi andiamo in tv. A caso. Per un certo periodo fu fissato con i videoclip. Mi parlò della sua idea di girarne uno in cui una famiglia era legata al tavolo della cena e dal piano di sopra uno cagava in un water che aveva tre tubi e finivano dritti in gola di mamma, papà e figlio, che con gli occhi strabuzzati ingoiavano la merda. Secondo lui, a Canale 5 c’era uno che conosceva e lo avrebbero passato. Sennò avremmo potuto fare quello coi calabroni che pinzavano nel muso una bambina fino a farla stramazzare al suolo. Anche quello per la tv. Questo era Fabio. Voleva arrivare, non si sa dove ma in alto. Con questo mantra ossessionava gli altri due. Il motore della band era Marcello: voce e chitarra, uno che tirava fuori una hit al giorno. Il leader, allo stesso tempo defilato, del tutto inaffidabile, autodidatta, dava pacchi clamorosi e spariva sul più bello, si presentava sul palco di un concerto importante mandando in bestia Fabio perché aveva la chitarra scordata, o si era dimenticato il plettro. Era uno psicodramma continuo. Appassionato di storie da bar, apparentemente distaccato da tutti, non avevi mai idea di cosa potesse pensare e ogni tanto emanava vibrazioni di puro pericolo. Gli mancavano dei denti, aveva avuto la gotta e suonando sudava così tanto che corrodeva le corde della chitarra. Era un manico, mai visto nessuno chiavare così lo strumento.
David, Sala prove a Santa Croce sull’Arno, 2007
I Los Dragos suonavano garage, rock and roll e altra roba molto distorta e avevano stile. La prima volta che li vidi era allo Zero Zero Ufo di Montecarlo. Il posto era strapieno, c’era gente strana, pareva di essere a Londra, altro che nei campi prima di Lucca. Iniziarono a suonare a luci spente, oscurati al pubblico da un sipario. Era un crescendo di pulsazioni e vibrazioni, la batteria rullava e le chitarre salivano sature, fino a fischiare. Poi partì il ritornello e venne giù la tenda. Avevano foderato il palco di carta bianca, erano vestiti di bianco e con gli strumenti bianchi, avvolti di luce.
[pullquote]Gli stavo accanto e capivo che erano davvero rock and roll e che io non lo sarei mai stato. [/pullquote]
Un volume spropositato. La gente iniziò a pogare, erano tutti fuori di testa. Sembrava una band americana. Sembravamo tutti in America, sembrava che stesse succedendo qualcosa. I Draghi erano potentissimi, grezzi e veloci. Il sound delle chitarre era bombato dai pedali fatti a mano da Mr-T, un taciturno personaggio stile Kerouac, che aveva forgiato i suoi fuzz da calotte di interruttori ospedalieri (se non ricordo male). Le chitarre grattugiavano il cervello. Mi ricordo distintamente di uno che piangeva di gioia camminando in tondo al centro del pogo, come fosse un miracolato e avesse visto la Madonna. Marcus stava in un angolo a fissare la scena pietrificato. Marcello non sapeva l’inglese quindi cantava una sorta di grammelot, Fabio suonava delle Intermark, le prime chitarre giapponesi che modificava da solo. Si muoveva come un serpente grasso, facendo un gran casino e sporgendosi sul pubblico. Sergio smascellava, sudato, mezzo nudo sulla batteria. Non c’era posa, era tutto teatro. Non avevamo mai visto niente del genere. È stato un attimo eterno.
Fabio detto “Billy Boy” e Sergio, Los Dragos reunion 2012
Bastò quello per sviluppare attorno a loro un seguito di intrippati e imbucati, gente dispersa che cercava la redenzione. Io ne avevo paura. Bevevo meno di loro e fumavo meno di loro e avevo visto meno mondo di loro. Erano più grandi e non avevano il senso del pericolo o del dolore. Volevo stargli attorno, suonavo anche io, ma erano irraggiungibili. Mi succedeva come a scuola da bambino, trovavo dei tipi schivi, da cui volevo essere accettato ma che spesso non mi consideravano. Gli stavo accanto e capivo che erano davvero rock and roll e che io non lo sarei mai stato. Mi faceva schifo vomitare se ero ubriaco, ero in para che mi levassero la patente e andavo in ansia con quelle canne. Loro no. Anche per questo ne eravamo tutti affascinati. Avevamo tutti la maglietta dei Draghi, font bianco e un Ape 50 stilizzato nel mezzo. Non diceva niente e diceva tutto, era il simbolo della nostra terra, dei vecchi al bar, di cosa eravamo noi. Finalmente non più un buco di culo in provincia aka Valdinievole, ma la Tears Valley, un posto con un sound della madonna. Fanculo Firenze e i fiorentini con le loro smanie, fanculo Milano modaiola e pure Bologna underground. Era tutto finto se paragonato ai Draghi.
Giravo sul pandino con Marcus alla guida, giorno e notte ascoltando la musica. La sera scavalcavamo la recinzione dell’Autogrill di Serravalle e facevamo le due scolando il limoncello di suo nonno e ascoltando i Draghi. Avremmo potuto mangiare la pappa in testa a chiunque con le nostre storie, con la nostra musica. Sapevamo di avere una marcia in più per la loro influenza e li studiavamo come Lucrezio studiava Epicuro, per capire il segreto della vita. Se eri in grado di suonare la chitarra in quel modo, eri in grado di affrontare qualsiasi cosa. Come avremmo fatto a non farci mettere i piedi in testa nel mondo? Come avremmo fatto a capire chi eravamo? Solo l’appartenenza a quel sound ce lo diceva. Ascoltavamo i Motorhead, i Black Lips, i Liars, i Doors, Link Wray, i Nuggets, i Ventures, gli Stooges ma niente era come i Los Dragos, ed erano di Montecatini Terme. Il sindaco non lo sapeva, ma anche se lo avesse saputo non avrebbe capito niente. Avrebbe dovuto chiamare l’ambasciata, gemellarci con Memphis, organizzare un tunnel tra gli Usa e noi, sfruttare quella scintilla di vita al posto del turismo per i malati di reni che si curano alle nostre Terme. Ma chiaramente non è successo. Era tutto genio sprecato. Loro erano vite sprecate. Stavano facendo qualcosa di grande ma c’era sempre l’insidia che non l’avrebbero portata a termine. Questa era la nostra maledizione, essere sempre a un passo dalla perfezione ma perdersi in cazzate. A un certo punto i Draghi Sarebbero dovuti partire per un tour negli Usa ma non succedeva perché le fidanzate di uno di loro rompevano le scatole. Cose così. Ridicole. Erano la cosa più rock and roll in Europa e non riuscivano ad andare su MfuckingTV. Sapevamo che erano in grado di tenere testa a qualunque di quelle band e che avrebbero potuto ottenere lo stesso successo. I loro pezzi erano delle hit. A Montecatini, pazzesco, nella città delle ballerine e delle puttane, avevano predetto l’ultimo colpo di coda del rock prima dei Black Keys, degli Hives, dei White Stripes. E nessuno lo sapeva, ma noi si.
Marz a un barrino di frontiera dei suoi, all’Albinatico
Pochi anni dopo si sciolsero, non so nemmeno il perché. Divergenze credo. Tutti e tre hanno fatto altre cose. Ho scritto questo pezzo senza andare a chiedere niente a nessuno, senza verificare le fonti. Non so se quello a cui strinse la mano il Bartolo era il sindaco o un assessore, non so i nomi delle band, non so le storie esatte di molti di loro. Non sono un biografo. È probabile che molti di quelli di cui ho scritto non si ricordino chi sia e mi sta benissimo così. Ho voluto lasciare intatta la matrice onirica che mi lega a queste persone, raccontare quello che per me hanno rappresentato, anche se loro non lo sanno. Quando sono andato a Milano parlavo a tutti dei Draghi, mi sembrava di essere nella modernità e volevo portare i nordici a vedere di cosa eravamo capaci io e quelli delle mie parti, ma nessuno mi dava retta, il rock and roll era già finito. Poi ogni tanto tornavo a Montecatini. Lo stradone che portava dalla casa mia al centro lo chiamavano tutti Campigli e già alle 19 c’erano le ragazze che battevano in minigonna, unica attrattiva del posto assieme al porchettaro. Percorrendolo da Monsumano entravi sulla rotonda dei Carabinieri, giusto adiacenti a quelle strade di trasgressione e passavi la farmacia e la Conad, la videoteca e un altro nugolo di ragazze, stavolta nigeriane fino alla rotonda successiva. Lasciatosi alle spalle tutto questo, si arrivava al parcheggio dell’ippodromo, li c’era lo Sheraton Mammuth Hotel, la sala prove dei Los Dragos, dove sentivo rombare le chitarre. Oggi tutto tace, Montecatini è sempre uguale, ma ogni volta che ci passo, io sento ancora quel suono.