A 30 anni dalla sua scomparsa prematura, un’elegia per il più grande bassista metal di sempre:

Cliff Burton ed io
27 Set 2016

A quei tempi ero passato da Dylan Dog a Nietzsche, Faulkner e Camus, senza peraltro capirci un cazzo. Avevo i 100 pagine 1000 lire in tasca, i capelli lunghi fino al culo, fumavo calumet e suonavo un manico di scopa a sei corde pagato 150 mila lire. 
Sono andato a ricercare una vecchia agenda di non so quale banca popolare dove scrivevo quello che mi veniva in mente durante l’adolescenza, me l’aveva regalata mia zia, che era una cliente della banca in questione: “Prendila, può esserti utile, ne ho tante… tua mamma dice che ti dimentichi spesso le cose”. In realtà, è adesso che mi dimentico le cose, ché non ce la faccio più a contenere tutto. Vent’anni fa non ricordavo quello che non mi interessava, tipo il pagamento di una multa, e rispondevo sempre alla stessa maniera, forse perché mi sentivo protetto a leggere gente coi coglioni: “E se la memoria fosse anche la capacità di dimenticare?”. Me la cavavo così. 

Ai tempi suonavo metal insieme ad alcuni amici. All’inizio eravamo in tre: Frank al basso, mio cugino alla batteria. L’embrione della prima band metallara dell’intera provincia. Vivevamo da musicisti sbraconi, ma non c’era nulla di così miserevole, era qualcosa di vivo, autentico. Frank oggi fa il geometra. È uno bravo, lo è sempre stato, aveva estro. Non ci parliamo più da 18 anni. È una delle mancanze più infognate della mia vita. Ci sono cresciuto, gli volevo bene. Eravamo compagni di scuola (asilo, elementari, medie), ci scambiavamo i dischi, anche robe registrate male, o concerti passati in radio; giravamo insieme con i rispettivi walkman scocciati infilati nella tasca interna dei giacchetti di jeans; entrambi indossavamo pantaloni a zampa d’elefante, ci differenziavano le scarpe: io avevo le nike bianche con la svirgolettata rossa (quelle che indossa Marty McFly su Ritorno al Futuro), lui le converse, nere e bordeaux. Guardavamo i film insieme, facevamo finta di studiare insieme, suonavamo insieme.

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L’idea di mettere su un gruppo per suonare venne a me e mio cugino, non ricordo come sia nata la cosa, ma a un certo punto ci siamo ritrovati nel vecchio casale di mio nonno a suonare una roba di merda qualsiasi tipo Knockin’ on Heaven’s Door, perché sapevo suonare quei tre accordi senza andare fuori tempo (non dovevo pensare troppo a dove mettere le dita). Non avevo neanche la tracolla per la chitarra, suonavo seduto su una sedia che puzzava di muffa. Mio cugino aveva comprato una Tama bordeaux, non era completa, ma la cassa e il rullante c’erano e andava bene così. 
Dopo qualche settimana di cazzeggi improvvisati, la conseguenza naturale fu chiedere a Frank: “Ti va di suonare il basso con noi?”. Lui accettò e poco dopo si aggiunse anche un secondo chitarrista. Qualche mese dopo avevamo anche una voce: uno del giro che inizialmente veniva ad ascoltarci per fumarsi le canne senza troppi sbattimenti, ma che poi iniziò ad avvicinarsi al gruppo scrivendo frasi incomprensibili con l’uni-posca bianco sopra il mixer. Un giorno prese il microfono perché qualcuno stava strimpellando gli accordi di Senza Vento dei Timoria. Sapeva solo una strofa e il ritornello, ma noi accettammo la sua candidatura spontanea e il sabato successivo avevamo anche un nome, una roba talmente merdosa che la cambiammo quasi subito in Ampedra (non che Ampedra sia grandioso, ma almeno non sembrava un nome estrapolato dal diario delle medie). A dirla tutta, Ampedra era un acronimo, ma ve lo risparmio perché tra 4 anni magari mi candido alla Casa Bianca. 

Quelli erano i giorni in cui ascoltavamo musica “morbida”: io ero andato completamente sotto a un doppio cd dei Deep Purple che portò a casa mio fratello dalla trasferta a Perugia per la visita dei tre giorni; mio cugino ascoltava i Led Zeppelin e altre cose anni ’80; il secondo chitarrista ascoltava classici e dintorni, Frank cose tipo musica italiana d’autore e colonne sonore (uno dei suoi fratelli maggiori era un appassionato di cinema); non si è mai saputo cosa ascoltasse il cantante, forse tutto forse niente. 

Ci trovavamo quasi ogni giorno a suonare tutti i pezzi che eravamo in grado di suonare, e quando dico tutto intendo TUTTO. Un anno dopo (?) avevamo un nuovo chitarrista: il primo si era orientato verso il pop, mentre noi stavamo virando decisamente verso la potenza. Il nuovo chitarrista si chiamava come me, Daniele, ma era completamente diverso da me. Lui biondo e occhi azzurri; io il contrario. Anche Daniele era stato mio compagno di scuola, per un anno, alle medie. Aveva un buon orecchio. Legò molto con il battersita, io, invece, ero sempre più legato a Frank. Nel frattempo avevo “conosciuto” altri musicisti. Studiavo in cameretta gli assoli di vecchi bluesman ormai sepolti e passavo pomeriggi di pura gioia e disperazione: come riuscivano a suonare in quel modo? Non era una questione di tecnica ma di… di dolore. Conoscevo la pentatonica, e mi bastava. Facevo tutto con quella, mettendoci dentro note che pescavo ad orecchio. Avevo visto suonare un chitarrista bravissimo della provincia, si chiamava Massimiliano, ed ero rimasto colpito dalla sua capacità di suonare con gusto e tanta intensità. 

tumblr_njn7zjlanx1qm65r7o1_1280 Le cose andavano rapide, ti voltavi e c’era un musicista nuovo da imparare, provare, ascoltare. Fu in quel periodo che chiesi a Frank perché aveva scelto di suonare il basso con le dita e non con il plettro.
“Vuoi suonare come Steve Harris?”
“Mh. Semmai come Cliff Burton”.
E, come Cliff, voleva un Rickenbacker.

Daniele, dopo essersi ambientato, iniziò a suonare in saletta qualche riff dei Metallica. E a me i Metallica piacevano. (Penso ancora che James Hetfield sia una versione metallara di dio). Presi le tabs di Master of Puppets e iniziai a studiarli di notte, come un ladro studia la prossima banca da fottere. A volte mi vedevo in sala prove solo con Frank, per suonare insieme qualcosa. E quando si decideva di staccare per evitare di trovarsi gli sbirri alla porta (chiamati dai vicini), s’iniziava a parlare di quello che ci stava accadendo: l’infatuazione per una nuova ragazza, oppure per un nuovo riff e giro di basso.

Eravamo convinti che Orion non fosse solo un gran pezzo: era qualcosa di diverso. Avevamo già copiato un cd del Pogatore (Massimo per i non addetti ai lavori) con dentro (Anesthesia) Pulling Teeth di Cliff Burton – “uno dei più grandi momenti per il basso elettrico nella storia” secondo Flea -, e avevamo messo su anche quello che rimane uno dei pezzi più diocristo dei Metallica, For Whom the Bell Tolls (di conseguenza, avevo anche iniziato a leggere Hemingway). Insomma, il talento di Cliff Burton ci aveva già preso a schiaffi col suo suono distorto e strizzato dal wah wah (quasi tutti i miei amici metallari e non, pensavano che il fraseggio iniziale fosse di una chitarra, e sbagliavano), ma Orion era strano nell’armonia. Era, appunto, qualcosa di diverso; diverso come lo era Cliff, con stile; come può esserlo un bassista che suona trash metal, ascolta Bach e si veste con jeans anni Settanta. Non mi era mai capitato di suonare triadi distorte con quelle figure, non erano i soliti accordi di quinta, e la linea di basso era complessa: arpeggi, bicordi, e armonizzazioni che neanche capivamo ma che suonavano come nient’altro. La conoscenza musicale di Cliff Burton era raffinata e non si placava mai. La sua apertura mentale sfiorava il sacrilegio, soprattutto per quei tempi segnati dalla massoneria metallara e dalla bibliografia di riferimento (tipo Metal Hammer, Metal Shock, Metalitalia, HM, Metalsucks). Burton amava il blues, il southern rock, il punk, la musica classica. In una rara intervista (parlava poco con la stampa), se non erro ai tempi di Ride the Lightning, disse: “Ascolto qualsiasi cosa di Glenn Danzig, Misfits, gli Shamain; tutto dei Thin Lizzy, le vecchie cose dei Black Sabbath, alcune cose degli Aerosmith. C’è una band che si chiama REM che mi piace”. E ancora, stavolta il suo amico Kirk Hammett, col quale aveva legato tantissimo (e col quale si era giocato a carte il posto della morte vicino al finestrino nel tour-bus): “Cliff Burton was a total anomaly […] He was very open minded”.

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Una sera, dopo aver provato alcuni pezzi, Frank ed io ci siamo seduti per terra, schiena appoggiata agli amplificatori, birretta in mano. Nessun rumore tranne le valvole in stand by. Frank mi dice tutto quello che gli piacerebbe suonare, come farlo, il perché aveva un senso suonare in una band secondo lui. Poi parliamo di un paio di ragazze più grandi di noi che ci piacevano. Io gli dico di aver colto la palla al balzo il giorno prima: “Serena è salita dietro e si è seduta accanto a me, mio fratello guidava e mi ha guardato dallo specchietto retrovisore, io avevo bevuto tre o quattro Guinness, ero gonfio, mi sono voltato verso di lei, ho stretto la sua mano, e senza averle mai parlato prima, le ho detto ‘chiudi gli occhi, ascolta’… era il minuto 3:33, c’era l’arpeggio centrale di Master of Puppets… ma ti rendi conto che cazzata da coglione?”. Ero disperato. “Ma lei che ha fatto? Ha lasciato la mano?”. “No”. Allora Frank non ha detto niente, si è alzato, mi ha passato le cartine, e senza dire nulla è andato vicino all’impianto per premere play. Abbiamo ascoltato tutto Master of Puppets dall’inizio. Non abbiamo detto una parola per cinquantacinque minuti. Su Damage Inc, lo ricordo come fosse ieri, ho avuto tipo un sussulto, come se avessi avvertito tutta la bellezza di un’idea o qualcosa del genere; al minuto 3:15 Damage Inc. si “ferma”, c’è quel riff suonato da uno dei più grandi chitarristi ritmici di sempre, James Hetfield; poi Ulrich entra in levare con la seconda chitarra mentre Cliff entra da solo in battere e suona solo un bicordo lungo l’intera la battuta, un bicordo che armonizza tutto e che riesce a dare profondità, qualcosa che scava lo stomaco, che è grezzo e raffinato allo stesso tempo, che gonfia tutta la potenza del riff. E questo, cazzo, significa saper suonare.

Oggi, quando penso a Cliff Burton, penso a uno dei migliori in assoluto. Non ho mai scritto di musicisti, tranne una volta, un pezzo per Darrell su Bastonate.com, altro musicista ineguagliabile dal destino devastante.

Non so perché ho scritto questo pezzo, la data di domani è una “scusa”, un aggancio che userò per proteggermi, come facevo con quella frase sulla memoria. Forse l’ho scritto perché voglio bene a Cliff Burton, per un suo riconoscimento, perché la sua esistenza è stata una briciola importante nella mia formazione; forse l’ho scritto perché la musica è anche un mondo in cui ho conosciuto belle persone, valide, sincere. Forse per tutte queste motivazioni o per nessuna di esse, perché in fondo non me ne frega un cazzo del riconoscimento.

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Qualche settimana fa sono andato al paese dove sono cresciuto. Sono arrivato alla Rocca, da lì si vede tutto il lago di Bolsena e la valle intorno. Ho fatto due passi nelle vie del centro storico e prima di tornare alla macchina, ho notato una targa attaccata vicino a un portone allegro ma non troppo. C’era scritto F***** Z***** GEOMETRA. Ho sentito lo stesso sussulto che ascoltai quella sera trascorsa insieme a lui in saletta prova al minuto 3:15 di Damage Inc..


Il giorno dopo ho cercato i libri di quegli anni. Ho trovato L’urlo e il furore, l’ho sfogliato e ho letto un periodo che avevo sottolineato tanti anni fa: “Quando l’ombra del telaio si disegnò sulle tendine era tra le sette e le otto del mattino, e fui di nuovo dentro il tempo, sentendo il ticchettio dell’orologio. Era quello del nonno e quando me lo diede il babbo disse: Quentin, eccoti il mausoleo di ogni speranza e desiderio; è molto probabile, purtroppo, che te ne serva anche tu per ottenere il reducto absurdum di ogni umana esperienza, che non farà per i tuoi bisogni individuali più di quanto fece per i suoi o per quelli di suo padre. Non te lo do perché tu possa ricordarti del tempo, ma perché ogni tanto tu possa dimenticarlo per un attimo e non sprecare tutto il tuo fiato nel tentativo di vincerlo. Perché, disse, le battaglie non si vincono mai. Non si combattono nemmeno. L’uomo scopre, sul campo, solo la sua follia e disperazione, e la vittoria è un’illusione dei filosofi e degli stolti.
Mi è venuto da piangere ma ho resistito, ho trattenuto le lacrime, fermandole con la vita. Metodo che avevo imparato a usare quando persi mio padre a quattordici anni per un incidente stradale (fu investito). L’unica persona che comprese pienamente questo aspetto fu mio fratello, a cui devo tanto, tantissimo: è lui che mi ha fatto ascoltare quel doppio dei Deep Purple, è lui che mi ha regalato una chitarra acustica, è lui che mi ha accompagnato a comprare una Gibson Les Paul Custom wine red; tutto quello che mi porto dietro ovunque io vada. 
Poi ho pensato a Cliff Burton, e a come abbia fatto la signora Jan a “superare” la perdita di suo figlio Cliff per quell’incidente così assurdo e, anni prima, anche la scomparsa prematura del figlio maggiore.

Se non lo conoscete e volete qualcosa che vi racconti Cliff Burton, guardatevi questo video. Per quanto riguarda il giudizio su For whom the bell tolls che avete letto all’inizio di questo pezzo, ho chiesto un parere al più grande fan dei metallica che io conosca (Marco, un batterista della mia zona), ed ecco la sua risposta via messaggio che ha motivato la scelta: “Ciao dani! Miglior pezzo dei metallica: for whom the bell tolls. Chi dice il contrario o va cercare da altre parti, per me non c ha capito un cazzo dei metallica. Per la batteria è difficile: indeciso fra hit the lights, blackned e disposable heroes. Propenderei cmq per blackned. Lì credo ci sia il riassunto di quello che è Lars. Cattiveria, poca tecnica ma molto impegno, tupatupa anni ’80, il migliore a mio avviso, l’unico che quando lo senti esprime disagio, sofferenza, ribellione. Sono stato serio, ti ho detto, senza scherzare, quello che penso”.

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Quella band, la mia band, gli Ampedra, cambiò ancora nel corso degli anni: nuovo chitarrista, nuovo cantante e nuovo bassista. Daniele lasciò per seguire la sua vita, mentre Frank andò via per motivi che non voglio raccontare; non avrebbe neanche senso, bisogna esserci dentro per comprendere. 
Nell’ultimo periodo eravamo in quattro, le parti di chitarra le suonavo da solo. L’ultima volta che abbiamo suonato insieme? Anni fa, non ricordo quando, e non me ne frega un cazzo ricordarlo (Non te lo do perché tu possa ricordarti del tempo, ma perché ogni tanto tu possa dimenticarlo per un attimo).

Ride the Lightning e Master of Puppets rimangono tra i primi cinque dischi trash metal più importanti di sempre. Forse Master, dopo 30 anni, è ancora il migliore in assoluto. Mi capita di riascoltarlo e di muovere il polso destro come fosse un riflesso condizionato di Pavlov.
I due dischi dopo Master of Puppets sono gran dischi, ma risentono in modo diverso della mancanza di Burton. Su And Justice for All il basso di Jason Newsted neanche si sente: Hetfield, Ulrich e Hammett non sono mai riusciti a superare la morte di Cliff, e non credo che questa sia una mia opinione ma un dato di fatto. Molto probabilmente, è l’intero genere metal che risente la sua mancanza. 

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Per quanto riguarda me, sono stato insieme a Serena. Il mio primo amore. So che si è sposata e ha una figlia; non la vedo da almeno dieci anni. Eravamo dei bimbi, ridevamo spesso, ci siamo amati con innocenza. E Frank… Frank ha due figli. Mi piacerebbe riparlarci e chiarire quello che è successo, ma non credo accadrà mai. E forse è giusto così.

Oggi, prima di rileggere questo pezzo, ho guardato dentro la scarpiera: quelle nike non ci sono più, ma ho due paia di converse, nere e bordeaux, come quelle che indossava Frank.

Poi ho preso un caffè e ho cercato Lo straniero di Camus, l’ho sfogliato, odorava di arbre magique al limone (non ho idea del perché); cercavo una parte che ricordavo male, ci ho messo un po’ ma alla fine l’ho trovata: Anch’io come tutti, avevo letto dei racconti sui giornali. Ma certo esistevano libri speciali che non ho mai avuto la curiosità di consultare; in essi forse avrei trovato dei racconti di evasione. Avrei saputo che almeno in un caso la ruota si era fermata, che in quel precipitare irresistibile, una sola volta, il caso e la fortuna avevano cambiato qualcosa. Una volta! In fondo credo che questo mi sarebbe bastato: il mio cuore avrebbe fatto il resto.

@danpi

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