Mia figlia ha cominciato a parlare meglio. L’altra sera mi ha pure detto mi manchi. Seduta sul water, uno dei pochi momenti in cui è possibile avere l’attenzione dei bambini, indicandomi ha balbettato una cosa tipo: ma-mi.
Poteva significare qualsiasi cosa ma l’ha detto in un modo che ho capito, e l’ho capito perché è mia figlia e perché glielo ripeto sempre io. Manchi? Le ho chiesto
E lei: sì
E io: io?
E lei: sì
Amore, le ho detto, anche a me mi manchi.
Viviamo a 300 chilometri e migliaia di parole di distanza. Ma lei striscia un sacco, come le lucertole, come i serpenti, come i Marines, un esercizio che chissà come mai stimola il linguaggio, striscia circa 200 metri al giorno. Le ripeto: più strisci più parli, più parli meno strisci. Lei fa sì con la testa. Capisce? Mi piace pensare di sì.
Vederla o farla strisciare le prime volte era dura. Lei non voleva, è faticoso, ma alcune cose le devi fare, non hai molta scelta. Devi. Sei scettico e credi che non serva a niente? Se non provi hai già perso. Provarci vale la pena anche solo per la speranza.
Ho strisciato pure io, per capire cosa si prova. Strisciando conquisti metro dopo metro un traguardo che imponi a te stesso. La disciplina ultimamente mi è alleata.
Ho sempre invidiato chi si mette lì e scrive, si mette lì e produce 30 righe in dieci minuti. Per me, cazzo, è una sofferenza. Odio farlo, ma a un certo punto scrivere per me diventa come un bisogno primario. Consumo tempo e sigarette, tasti e polmoni ma o scrivo o non riesco ad andare avanti. Come pisciare: la trattieni la trattieni la trattieni ma poi da qualche parte la devi fare.
[pullquote]Mi manca. Mi manca la sua voce. Mi manca sapere quali sono le sue esigenze, le sfumature, ché sono le sottigliezze di un ragionamento a interessarmi [/pullquote]
Io cerco di lavorare sulle parole, le misuro, le soppeso, le giudico, le scelgo, le critico mentre lei ogni parola la suda. Si ferma, si concentra, si sforza e poi la sputa balbettando. Intenzionalità comunicativa, si chiama. Uno scherzo, penso spesso. Una beffa. Virginia mi ricorda costantemente che le parole si conquistano. Una dopo l’altra. Come i metri quando strisci.
Anni fa avevo l’idea di fare un documentario su di lei. Il mio amico Pablo mi propose di mettere la sua voce in sottofondo, dando forma a dei pensieri che avrebbe potuto dire lei. Io ci ho pensato un po’ poi ho detto no, ché io non sono nessuno per darle una voce, per attribuirle una frase, un’espressione, le parole sono solo sue, non avrei mai potuto immaginare quale concetto avrebbe potuto esprimere o quale domanda avrebbe potuto fare in una determinata situazione.
Mi manca. Mi manca la sua voce. Mi manca sapere quali sono le sue esigenze. Si fa capire, certo. Ma sono le sfumature che mi mancano, sono le sottigliezze di un ragionamento che mi interessano. Quando è nata io e Ginevra ci dicevamo che avremmo barattato un nostro braccio o una gamba per sentirci dire che la diagnosi era sbagliata, niente sindrome niente cromosoma difettoso niente difficoltà motorie o di linguaggio, tutto normale. Dopo otto anni continuo a dubitare dei genitori che dicono: mio figlio disabile è stato un dono. È un modo (legittimo) per raccontarsela e sopportare. Di quel dono ne avrei fatto a meno volentieri e quel braccio lo darei pure adesso. E Virginia la amo ma non so quanto, non ancora.
E mi sento in colpa. La notte quando non la penso. Quando con lei non riesco ad avere quella confidenza che vorrei avere. Quando penso che se non fosse arrivato Orlando, che se non fosse stato per la tenacia di Ginevra probabilmente sarei scappato.
Le paure, le insicurezze, i dubbi restano, sono sempre lì e vengono fuori quando vogliono loro, pure se li hai rimossi. Il fatto non è cancellarli. Il fatto è superarli, ogni volta. Ogni paura è una battaglia.
Non ricordo chi l’ha detto, ma ha detto così: «Non ci libereremo mai delle catene che abbiamo spezzato».
In fondo alle inquietudini c’è sempre un motivo. Bisogna guardarci dentro. E ammetterle. E parlarne. E provare ad andare oltre, anche se non le abbandonerai mai.