Speciale Mundial/Proiettile N.5 Dopo Zigo Zigoni, ecco il secondo giocatore che avremmo voluto ai Mondiali ma che è nato male (lasciato dai genitori in collegio) e finito peggio (a fare il poeta!). Ex di Napoli, Padova e Vicenza, insegna calcio ai giovani: «Affanculo pressing, squadra corta e diagonali. Il calcio vero è un’altra cosa»

Ezio Vendrame
1 Lug 2014

Nella mia mente, come in quella della stragrande maggioranza delle persone – potrei scommetterci – i calciatori sono persone rozze, ignoranti, volgari. Tutto il contrario dei poeti: i più sensibili degli esseri umani, i “mezzi” attraverso il quale l’umanità esprime i propri tormenti, le proprie gioie, la vita. Che succede quando queste peculiarità incontrano due piedi buoni? Succede che giocare a calcio diventa il sistema con cui mantenersi, abbuffarsi di esperienze, vivere bene – meglio, tutto sommato, di quanto non sarebbe stato con un altro lavoro. Significa sentirsi spesso a disagio, però, vivere nel tormento. Significa vivere come Ezio Vendrame, ex di Vicenza, Napoli, Padova, calciatore e poeta. La sua, di vita, inizia con un trauma: all’età di sei anni viene affidato dai genitori ad un collegio – un orfanotrofio, dice lui. Di quel periodo Vendrame ricorda i pianti senza lacrime, il cuore strangolato ed il pensiero di essere stato particolarmente sfortunato, a diventare orfano pur coi genitori in vita.

«Di quell’istituto, gestito da un prete (un certo padre Osvaldo Donadon), mentre gli assistenti erano dei ragazzi universitari, ricordo la fame, la paura, la pipì che facevo nel letto, le angherie dei più grandi, ma soprattutto quell’abisso, quel vuoto immenso dell’Assenza».

È in occasione delle vacanze estive, trascorse con la colonia del collegio, che viene notato dal medico sociale dell’Udinese, mentre gioca una partitella assieme agli amici. Terminati gli studi, dopo un provino brevissimo, le porte della società friulana si aprono d’innanzi a lui, dando inizio alla leggenda del Vendrame calciatore. Vendrame è un simbolo, per chi negli anni ’70 siede sui banchi di scuola: come ricorda Sebastiano Vernazza, la sua figurina, così come l’immagine del Che o una canzone di Bob Dylan, segna l’appartenenza al partito del peccato, a quello del cuore, della libertà. Gianfranco Zigoni, suo coetaneo (tre, gli anni di differenza) e praticamente suo conterraneo (quaranta, i chilometri che li separavano), è spesso suo compagno d’avventure. Il repertorio, infatti, si assomiglia:

le cene in una «‘magica’ trattoria» (da Luigino, a Vicenza)

«Ci davamo dentro in quel locale, quasi ogni sera, a volte fino a notte fonda, bevendo, mangiando, ridendo, suonando, godendo ed esagerando. Eravamo l’eccesso a tutta forza! Se riuscivi a sopravvivere a Luigino e a una delle sue nottate, affrontare una partita di calcio diventava un’inezia!»

la passione per le femmine

«Avrei sputato sangue e donato un rene per la figa. Però quelli erano tempi grassi e quindi quei sacrifici non servivano».

«Ero diventato un can da figa. Per me era impossibile resistere al richiamo dell’odore di femmina. E quasi sempre scordavo che avrei dovuto fare soltanto il calciatore».

«I lunedì erano giornate di riposo per i calciatori, ma non per me: i miei erano pieni fino all’orlo. La mia casa sembrava uno studio di ginecologia. La giornata di visite iniziava già alle 9 del mattino con la signora Giuliana; alle 11 sarebbe arrivata la signora Carla; alle 14 la mia amica Lella; alle 18 quella troia della Fernanda e infine, alle 22, toccava alla novità della settimana».

e la continua tensione all’eccesso, tipica di chi porta con sé una depressione latente

«Soltanto io conosco le mie partite infinite, quelle che cominciavano ogni sabato notte, coricandomi, e terminavano alle prime luci dell’alba quando i miei compagni ancora dormivano ed io, con la sigaretta in bocca ero già in giro per la città alla ricerca di un caffè e di un cesso dove vomitare la bile. E soltanto i miei compagni e i miei allenatori sanno che non potevo pranzare prima di una gara perché se avessi ingerito anche un solo grissino, avrei rigurgitato l’anima! Come avrei potuto essere un calciatore vero in quelle condizioni? Ad ogni fischio d’inizio ero già distrutto, avevo già giocato, avevo già finito. Però, nonostante tutto, c’è chi si è sempre accontentato. Anche delle mie briciole!».

Vendrame_chitarra

A distinguere Vendrame è una sensibilità fuori dal comune o, quanto meno, delle barriere più fragili, muri meno spessi, meno capaci di contenere tutto quello che ribolliva dentro al suo animo. Una profonda amicizia lo ha legato a Piero Ciampi, un regalo che la vita gli ha concesso, a suo dire, e che ha nutrito a piene mani la sua anima, segnandola per sempre.

«Piero mi raccontò che un giorno, a Padova, si trovava con Marcello Micci ed era andato a vedere una partita di Ezio. Questi, quando lo scorse in tribuna, fermò il gioco e, fra lo stupore generale, andò a salutare gli amici. Piero raccontava questo episodio ed era felice per quel ricordo dissacratorio quanto amabile».*

Smessi i panni di calciatore, Vendrame comincia a scrivere. In prosa, raccontando le sue gesta e quelle dell’amico Zigoni, ed in poesia – «La scrittura mi sta salvando dal suicidarmi. Non ho alternative.», afferma oggi. Versi tristi, possiamo dirlo. Versi che esprimono un’angoscia profonda, uno sguardo nero, sulla vita, sul presente e sul futuro. Qualche boutade, qualche sorriso amaro, in mezzo ad una grande disperazione. Conoscete un altro calciatore esistenzialista? Oltre a scrivere, insegna il calcio ai giovani ed ai bambini, con le idee, lo stile e le intenzioni di un animo puro, come quello dei suoi allievi.

«Affanculo pressing, squadra corta, fuorigioco e diagonali. Ci sputo sopra agli inventori di queste cagate! Il calcio vero è un’altra cosa, ha un’anima che almeno a livello giovanile dovremmo salvaguardare! A loro dico che a 14-15 anni è normale farsi le seghe e se trovano una ragazza che collabora è ancora meglio! Casomai è chi non se le fa che è malato e non è giusto che giochi. E la domenica, quando abbiamo dato tutto e siamo a posto con la coscienza, dobbiamo sempre accettare anche la sconfitta, senza alcun dramma, perché il gioco del calcio è soltanto un gioco: una piccola cosa della vita. Non dobbiamo stare male più di tanto quando perdiamo una partita, ma quando perdiamo un affetto, o quando deludiamo qualcuno che ci ama! Ma tutto questo loro lo capiscono subito. Sono gli adulti che non comprendono, a cominciare dai genitori. Per questo motivo sogno da sempre di allenare una squadra di orfani!».

Negli ultimi anni, riprende a farsi vedere in qualche occasione pubblica – contesto che lui detesta, come immaginabile. Prende parte ad alcune presentazioni, viene invitato a parlare. La depressione, forse, è meno acuta, i toni cupi delle poesie si stemperano. Quello che resta è l’amore per l’amore e, sotto sotto, anche un poco per la vita.

«La terra a volte mi sembra che sia diventata l’inferno di un altro pianeta ma è in questo mondo che dobbiamo pensare di salvarci. L’amore è tutto. Solo l’amore può dare ampiezza alle cose, nel tempo e per il tempo. L’amore che ha questa stramaledetta condanna della perdita: non si può amare davvero qualcuno senza il timore di perderlo. Senza la sofferenza non è amore, diventa un’altra cosa. Vivo le cose con il cuore perché se uno non vive le cose con il cuore cammina senza gambe. Bisogna cercare di cogliere le cose più belle che ci dà questa cazzo di vita e assaporarle, masticarle, farle tue, anche perché secondo me non è ciò che si vede che esiste ma solo ciò che si sente». **

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* Così Pino Pavone nella introduzione di Un farabutto esistere, contenuto nella raccolta Il mio cuore stuprato, di Ezio Vendrame, edito da Edizioni Biblioteca dell’Immagine.

** Così in questa intervista qui. Tutti i virgolettati riportati in precedenza, a eccezione di quanto affermato da Pino Pavone, sono estratti del libro Se mi mandi in tribuna, godo, di Ezio Vendrame, Edizioni Biblioteca dell’Immagine

@giovane_albert

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