Gianfranco Zigoni, detto Zigo, classe 1944, nato e cresciuto a Oderzo, provincia di Treviso, ex giocatore di Juventus, Genoa, Roma, Verona e Brescia. Soprattutto Verona. Puro genio, puro spirito. Istinto sopra ogni cosa. Spavalderia e misticismo sono due ambiti in cui si muove con classe. Fortissimo, un talento naturale, però un ribelle, insofferente a qualsiasi tipo di regola e, anche per questo, discontinuo nel rendimento, poco adatto alla Nazionale. Veste la maglia azzurra unicamente in tre occasioni, tutte partite di poco conto di cui oltretutto ne gioca soltanto una. Non ha mai preso parte ad alcuna grande competizione né partecipato ai mondiali. Zigo ha una personalità bipolare. Un ruolo, il suo, interpretato con dedizione soprattutto in gioventù, e con il quale tiene tuttora banco tra tifosi e giornalisti. Un personaggio con abiti di scena ben definiti: una pelliccia bianca, indossata rigorosamente a pelle (divenuta uno dei suoi simboli, grazie a un celebre scatto che lo ritrae mentre la indossa in panchina, in occasione di un Verona-Fiorentina, in polemica con mister Valcareggi, reo di non averlo fatto giocare), un cappello a tesa larga, degli stivaletti da cowboy, una pistola sotto il braccio. Un teatrante dalle battute irresistibili, convinto di essere stato, assieme a Pelé e Maradona, l’unico autentico extra-terrestre mai esistito, «calcisticamente parlando» – come tiene a precisare. Un impareggiabile guascone. Lo stesso che intimava, ogni sera, a un giovanissimo Francesco Guidolin, di prestare la massima attenzione, il mattino seguente, nell’uscire dalla stanza che condividevano, ordinandogli, nel contempo, di presentarsi soltanto dopo le dieci per portargli la colazione. Lo stesso che sparava, con la sua Colt 45, ai lampioni di fronte alla sua stanza, in ritiro a Veronello, e che faceva strage di donne a bordo della sua Porsche, assieme agli amici storici Ferragosto e Vita. D’altro canto, una persona estremamente sensibile, con una vita segnata da tragici accadimenti (la scomparsa dei genitori, la morte di una nipotina, la malattia degenerativa del fratello), e spesso a disagio in un ambiente, quello del calcio, che non sentiva realmente suo.
[pullquote]Io sono come il cielo, SONO L’INFINITO. Non avrei dovuto fare soltanto i mondiali, ma giocare in un altro pianeta, nell’universo[/pullquote]
L’ho incontrato negli studi di Telearena, dove si è recato per la registrazione della trasmissione Palla lunga e pedalare. Zigo è un po’ provato. Ha bevuto un po’ di vino durante la trasmissione ed è stanco. In mattinata ha perso il cognato. Alterna momenti di malinconia a momenti di genio. Questa dev’essere l’intervista definitiva. Dopo questa intervista la gente non dovrà leggere null’altro che ti riguardi. «Ma non esagerare. E poi io sono come il cielo, SONO L’INFINITO». Leviamoci subito dalle palle il calcio. «Tanto io del calcio me ne sbatto i coglioni». Perché non sei andato ai mondiali? «Sarò breve. Nella nostra vita c’è un destino. E il mio destino era di non fare i mondiali. Anche se io penso che non avrei dovuto fare soltanto i mondiali, ma giocare in un altro pianeta, nell’universo». Cos’è questa storia che odiavi il calcio? «Non odiavo il calcio. Mi piaceva giocare il calcio dei bambini. Quando ho dovuto iniziare a giocare il calcio che volevano gli altri mi sono disinnamorato di questo sport». A che età ti è successa questa cosa? «Penso subito, già a Torino con i giovani, anche se ho avuto la gioia di giocare in Seria A a 17 anni con la Juventus. Ma non ero realmente felice di questo modo di vivere lo sport. Mi costringevano ad andare a dormire presto, allenarmi tutti i giorni. Ero uno spirito ribelle. Non mi sentivo libero». È per questo che fosti costretto a frequentare uno psichiatra? «Avevo 22 anni. Avevamo appena vinto il campionato ma il nostro allenatore era uno stress continuo. Era un certo Heriberto Herrera, paraguaiano, una persona onesta. È morto, povero, anche lui. Anche con lui mi presi a pugni. Tutte le mattine quando entravamo nello spogliatoio dovevamo pesarci e il peso doveva essere sempre uguale. Per un lungo periodo mi è capitato di presentarmi regolarmente sotto peso. Bevevo ogni volta un litro d’acqua per rientrare nel mio peso-forma. Dopo un anno di campionato impazzii». Una rigidità nelle regole che si scontrava frontalmente con la tua personalità. «Lui era onesto. Io lo rispettavo. Ma io ero anche giovane. Venivo dal Genoa dove era un po’ l’idolo della squadra e dove potevo fare più o meno quello che volevo. Mi imbattei in una sorta di dittatura. Non riuscivo più a mangiare, così fui visitato da uno psichiatra. Mi curai. Però, poi, avevo perso le forze. A 23 anni non ero più io». Ti sentivi arrivato? «In qualche maniera sì. Avevo vinto il campionato. Avevo vinto il premio come miglior giocatore italiano. Herrera mi aveva tarpato le ali. Io ero un spirito libero. Dovevo liberare la mia fantasia, anche in campo. Quando avevo bisogno di riposarmi lo dovevo poter fare, per essere più brillante dopo. Nella mia carriera, dopo quell’anno, resi – non voglio esagerare – il 60-70% di quanto avevo fatto sino a quel momento. Mi ripresi un po’ nel corso del secondo anno alla Roma, all’età di 26 anni. Poi sono stato bene, ma non al 100%, a Verona. Verona mi ha fatto rinascere. Fisicamente e psicologicamente. In realtà, fisicamente, non sono mai stato veramente bene. Forse fumavo troppo, bevevo troppo».
[pullquote]Fumavo 40 Marlboro al giorno, facevo le quattro a giocare a carte. Se mi fossi davvero impegnato solo DIO avrebbe potuto fermarmi[/pullquote]
Quante sigarette fumavi? «Eh fumavo anche quaranta Marlboro al giorno. Stavo fino alle quattro di mattino a giocare a Chemin de Fer. Anche il giorno prima della partita. Ecco, l’unica cosa che mi dispiace, visto il bene che mi hanno voluto a Verona, è di averli traditi un poco. Avrei potuto essere più serio. Però, sai, a quell’età non ci pensi e poi, forse, alla gente non importava. D’altra parte credo che se mi fossi davvero impegnato soltanto Dio avrebbe potuto fermarmi, nessun essere umano poteva farlo. Ogni tanto mi capitava a fine partita di domandarmi: “Perché oggi non sono riuscito a fare niente? Ero in forma, avrei potuto ucciderli tutti.”. Credo ci fosse una mano che mi fermava. Un qualcosa in grado di dirmi: “Oggi no, tu non fai niente”. Per contro, c’erano giornate come il famoso Verona-Milan 5-3». (Zigo si riferisce alla partita che diede i natali al mito del “fatal Verona”, per colpa della quale i rossoneri persero almeno due scudetti. Il primo dei due fu quello del 1973. Era l’ultima giornata e se il Milan avesse vinto contro un Verona senza particolari stimoli di classifica, avrebbe conquistato il campionato. Zigo entra in campo in un Bentegodi stracolmo di bandiere rossonere). «Mi guardai attorno e pensai: “Ma questi credono di avere già vinto?”. E il Milan mi stava pure simpatico. Mi rivolsi al mio amico Mazzanti e gli dissi: “Robertone, questi hanno sbagliato tutto, non sanno che oggi perdono, che vinciamo noi. Perché io oggi mi incazzo”. E non ho neanche fatto gol – anche da questo dettaglio puoi comprendere la mia grande bontà. Sul 5 a 1 i miei compagni volevano segnare ancora ma io dicevo loro: “Ma no, lasciateli stare”, anche se avrei potuto fare gol. E soffrii anche un po’ nel vederli così tristi a fine partita. Il calcio è terribile, è in grado di darti delusioni incredibili. Penso a calciatori che hanno sbagliato in momenti decisivi. Prendi Trezeguet, per esempio. Sono cose che ti segnano per tutta la vita. D’altra parte è il destino. E in realtà si tratta di cose davvero piccole se pensi a Dio, all’infinito. Cosa vuoi che sia un rigore? Però sono cose che fanno parte della vita. Se non fosse così ce ne sbatteremmo di tutto. Pensa, sono diventato un saggio. Leggere Baudelaire, Nietzsche, Hesse è servito a qualcosa. Non posso mica leggere i fotoromanzi. Dai».
[pullquote]Il calcio è terribile, ti dà delusioni incredibili. Pesno a calciatori che hanno sbagliato in momenti decisivi. Sono cose che ti segnano per tutta la vita[/pullquote]
Hai letto Open? «Mio figlio l’ha comprato, devo leggerlo. In genere quando vedo un libro di uno sportivo non ne sono molto attratto, penso sempre che non possa avere molto da dire. Mi hanno detto che Agassi assomigliava un po’ a me, hai fatto bene a ricordarmelo. A me piacciono molto Nietzsche, Hesse. Sai qual è il più grande libro che sia mai stato scritto? Siddhartha. Lo leggo due o tre volte all’anno. Ho letto tutto di Ernesto Guevara: Senza perdere la tenerezza, la storia della sua vita. Bellissimo». La bontà è un tema ricorrente negli episodi che riguardano la tua vita e nelle tue parole. Quando hai incontrato il Re d’Italia gli hai detto che il suo viso era quello di un uomo buono. Quanto è importante la bontà, nelle persone? «Sono cresciuto in una famiglia di otto fratelli, con il mito dei miei genitori: due persone buone. Saremmo stati in nove se mio fratello Gianfranco non fosse morto da bambino. Io porto il suo nome. Incontrai Umberto I in Portogallo, dove lui era in esilio. Quando pensi a un re immagini un viso austero, una personalità inavvicinabile per noi esseri umani. Gli dissi che aveva una faccia da buono ma che il vero Re d’Italia ero io». Credi di essere una persona buona? «Non lo so. Non riesco ancora a capirmi, non riesco ancora a capire me stesso, sto lottando per sapere chi sono. Non sono frasi fatte. A volte penso di essere di una bontà infinita. Altre volte sento di essere spietato, di essere un KILLER. Mi viene voglia di uccidere. Poi ascolto De André e mi chiedo chi sono io per giudicare qualcuno e per uccidere». Hai mai fatto del male a qualcuno? «Ho ricevuto del male. Fatto no. Giusto qualche pugno in faccia giocando. Anzi quando colpivo i miei avversari volevo loro ancora più bene di prima. Un anno, durante un Verona-Spal colpii con una gomitata un difensore della squadra avversaria. Si chiamava Lievore. Aveva passato tutta la partita a prendermi a gomitate. A un certo punto gli dissi: “Ma cosa fai, testa di cazzo?” e lo colpii. Sangue da tutte le parti. Non mi espulsero perché nessuno mi vide. Alla fine segnai anche il gol della vittoria. L’avevo picchiato ed avevamo vinto. La settimana dopo, mentre mi trovavo al casinò di Venezia…». Andavi spesso al casinò? «Ci andavo più che altro per mangiare il pesce. Dopo cena andavamo a buttare qualche soldo. Quella volta c’era anche il medico del Verona e un amico giornalista. Mentre ero alla roulette mi si avvicina questo tizio e mi fa: “Mi riconosci?”. Era Lievore. Ci siamo messi a ridere, è stato bellissimo. Siamo andati a bere del whisky assieme, abbiamo parlato. È morto a 52 anni per una brutta malattia. Non credo sia stato per colpa della mia gomitata. È stato un doppio dispiacere, una di quelle cose che ti fa pensare a cosa serva essere arroganti. Ma chi siamo? Chi siamo? QUIÉN SABE, dicono i messicani, chi lo sa? Vedi a me piace molto la figura di Gesù Cristo. E anche quella di Che Guevara. Io assomiglio un po’ a lui, mi immedesimo un po’ in lui». Che Guevara però è stato anche violento. «Però era onesto. Quando hai l’onestà hai tutto. Che Guevara uccideva, ma uccideva chi rompeva i coglioni. Non uccideva a caso». Ad Aldo Bet mostrasti la tua magnanimità. «Bet mi fregò. Fu mio compagno nella Roma e anche nel Verona. Era quasi un mio compaesano, abitava a dieci chilometri da casa mia. Lo incontrai per la prima volta, quando eravamo ancora avversari, durante un Inter-Juventus. Lo feci impazzire durante il primo tempo. Mentre usciva dal campo all’intervallo vidi un suo compagno che lo rincuorava, mentre lui quasi piangeva. Mi dissi: è un ragazzo giovane, perché vuoi umiliarlo? Nel secondo tempo giocai peggio. Non lo feci di proposito ma non avevo più gli stessi stimoli. Sai, se qualcuno facesse del male a mio figlio o ai miei nipotini, credo non esiterei ad uccidere. Non sarei più buono».
[pullquote]Diobono, volare è bellissimo. Adesso tu pensi che sia pazzo. Penso di sì, penso di esserlo davvero. Non riesco a capire chi sono.[/pullquote]
Hai un senso della giustizia molto primordiale. Sei come un animale. «Oh di sicuro. E infatti io amo il mondo degli animali». Però andavi a caccia. «Andavo a caccia ma ho smesso. Un giorno, dopo aver sparato a un uccellino, lui mi guardò negli occhi. Lo uccisi subito perché non soffrisse ma mi misi a piangere. In quel momento pensai: ma cosa hai fatto? E da quel giorno ho smesso. Andavo a caccia perché già da bambino lo facevo, con la fionda. Non era soltanto un gioco, non li uccidevamo per disprezzo, mangiavamo gli uccellini che riuscivo a prendere. Vado spesso in montagna a camminare, stare in mezzo alla natura, ai boschi. Sono momenti che ti permettono di stare con te stesso e di pensare anche a ciò che hai fatto nella vita. Essere cattivi non serve a nulla». Ma le armi hanno continuato a piacerti…«Sì perché sono cresciuto con il mito dei cowboy». Tu eri un cowboy? «No! Quando i cowboy uccidevano i pellerossa io stavo male. Anche se li facevano passare per i cattivi della situazione i pellerossa erano spiriti liberi, che cacciavano, andavano a pesca, non rompevano i coglioni. Però il cowboy mi affascinava. Il cowboy buono. Ma io amavo di più i pellerossa. Ti dicevo che mi piacciono gli animali, no? Io guardo sempre Geo & Geo. Ogni volta che in un documentario fanno vedere un animale feroce che uccide la sua preda, io devo cambiare canale. Dicono sia natura anche quella ma io non ce la faccio. Ecco il sentimento dell’odio che ritorna. Perché devono uccidere? Il leone o la tigre io li ucciderei. Mi ammazzano il cerbiatto che scappa. Chissà in quel momento il cerbiatto che batticuore che ha. Anche Dio, no, ogni tanto ci penso, cazzo ha fatto una cazzata tremenda, anche lui. Perché non ha fatto in modo che tutti gli animali potessero nutrirsi di erba? Forse così ci sarebbero stati troppi animali, non ne sarebbe morto nessuno. Ma potevano morire di vecchiaia. Il cerbiatto che cazzo ti ha fatto? Sai, se fossi un animale, che animale vorrei essere?». No, dimmelo tu. «Il condor. E sai perché?». No, non lo so. «Perché il condor vola più in alto di tutti. È difficile uccidere il condor. E poi a ogni uomo piacerebbe volare. Diobono, volare è bellissimo. Adesso tu pensi che sia pazzo. Penso di sì, penso di esserlo davvero. Non riesco a capire chi sono». Hai mai fatto qualcosa di cui ti vergoni? «Onestamente non mi pare.». Hai mai tradito una donna? «Si ecco, sono un traditore. Traditore con un po’ di rimorso, dopo. Mi dispiace per i figli. Ho capito che non ne vale la pena. Ma sai, si tratta di una debolezza umana, che un po’ tutti hanno. Tutti tradiscono, anche senza necessariamente accoppiarsi con qualcuno. E può essere pure più grave. Non desiderare la donna d’altri: non è facile, eh! O sei un frate o, se no, non è facile».
[pullquote]Quando crepo sarebbe bello mi bruciassero e facessero una pastasciutta. Potrebbero distribuirla a Verona: “Tifosi, mangiate! C’è dentro Zigo[/pullquote]
A te poi piacevano le donne, no? «Sì mi piacevano ma mi piacciono gli esseri umani. Non mi piacevano le donne in quanto tali. Mi piace la donna se è una persona che mi piace, se è intelligente, se no mi stufo. Mi stanco subito delle cose banali. Direi che sono un avventuriero, mi piace l’avventura. Anzi, ormai non più. SONO NEL VIALE DEI CIPRESSI. È la fine. Padre nostro aiutaci». Cassano ha detto di essere stato con più di ottocento donne. «Cassano a me piace, è un grande. Non portare Cassano ai mondiali sarebbe stato come fare la Gioconda con un occhio in meno. Sai, quando questi giocatori dicono di essere stati con cinquecento, mille donne, mi scadono un po’. È una bravura? Io dico sempre di aver avuto donne come tutti, come tutti gli uomini a cui piacciono e che ne cercano, né più né meno. Non sono un fanatico della donna. Deve avere qualcosa. Non mi interessa una donna solo perché ha un bel culo o delle belle tette o una bella figa». Qual è stata la cosa più bella che ti ha detto una donna? «[ci pensa un attimo, ride] Che sono uno stronzo. Ecco, anzi, un giorno mi dissero che ho delle belle mani! Non so se è un complimento o cosa. Be’ le mani sono importanti». Cos’è importante nella vita? «Per me sono importanti gli esseri umani. Io ho giocato a calcio. Ero uno dei più bravi. Ma ogni volta che incrociavo un calciatore – anche se era più scarso di me – ero orgoglioso di conoscerlo. Ho sempre rispettato tanto gli esseri umani. Ora che ci penso, mi sono sempre sentito inferiore». Come mai? «Non lo so. Ho giocato a calcio anche per ridere, in terza categoria. Eppure ho avuto delle soddisfazioni incredibili da queste esperienze. Sai, magari capitava di incontrare delle squadre nei gironi di ritorno di cui ricordavo alcuni giocatori. Nel senso che li avevo visti all’andata e avevo fatto loro caso. Andavo a salutarli, magari complimentandomi con loro. E questi ragazzi si riempivano di orgoglio. Io ero l’ex giocatore di Serie A, a fine carriera, e loro erano spiazzati da questo mio comportamento. Ma come? Questo viene a salutare noi che non siamo nessuno? Erano felici! Queste sono le cose belle della vita, secondo me». Hai paura della morte? «Ultimamente di meno. L’unica cosa che mi rompe le balle è che non mi caccino dentro intero. Mi romperebbe i coglioni. Ai funerali non assisto mai all’inumazione. L’idea che una persona sia messa lì, rimanga da sola. Ecco, di quello avrei paura. Io ho pregato i miei cari: “Fatemi bruciare o vi maledico.”. Il terrore mio è di andare dentro lì. Voglio continuare ad essere libero. Sarebbe bello mi bruciassero e facessero una pastasciutta. Potrebbero distribuirla a Verona, dove mi vogliono bene: “Tifosi, mangiate! C’è dentro Zigo”. Bella sta cosa qui. LA GLORIA È TUTTO, IL TUTTO È NULLA. SCHIACCIATE SATANA. Spero di non avere un po’ di Satana in me». Temo che un po’ ce ne sia. «Sì, hai ragione». Bella la cintura. «L’ho presa in Sardegna, durante una vacanza. La Z è un bel simbolo e poi rappresenta soltanto tre persone: ZORRO, ZAPATA E ZIGONI».