O del perché una testadicazzo discendente di indiani e santi bevitori racconta tutto di noi.

Hemingway
21 Lug 2019

La malattia lo aveva reso uno spettro, tremante, col viso incavato; lo aveva annullato. L’uomo che portava l’impermeabile alla Humphrey Bogart, con la cintura troppo stretta, l’uomo col sorriso schizzato da una parte come Clark Gable, l’uomo che abbracciava forte fino a far scricchiolare le ossa e camminava col passo piumato da ex pugile o, come diceva lui, da discendente di indiani. Protettore della gente da poco, che schifava i potenti, che andava a sedersi al bar quando si trovava a una cena dove qualcuno era stato invitato solo per il caffè; che sapeva sopportare il dolore fisico, il dolore mentale, che scriveva all’alba e tagliava l’inutile. Hemingway testadicazzo, pieno di spigoli, che si chiudeva in periodi neri senza scampo, tra sarcasmi lucidi e laceranti. Chi lo conosceva diceva che era difficile lavorare con lui, ma non potevi farne a meno, lo volevi.

Di Sherwood Anderson diceva che quelli della sua generazione tipo Steinbeck ne erano tutti debitori, che era impossibile non fare i conti con lui, proprio come diceva William Falulkner; ma tutti i suoi discorsi letterari si chiudevano con Shakespeare: il suo punto di partenza, il suo punto di arrivo, in cui c’era tutto quello che valeva pena scrivere. Lo stoicismo era uno dei suoi tratti, perché la forza deve essere sempre accompagnata dal coraggio, dalla lealtà, anche se la giustizia non trionfa quasi mai. Tutti i suoi libri sono impostati sulla lotta tra il bene e il male, dove il male è la vigliaccheria, la furbizia, la falsità. Un cacciatore che finisce quasi sempre per essere ferito dalla preda; un uomo che sanguina vita. Lo scrittore che con il suo understatement faceva strappare le mutandine a milioni di ragazze. Leale, schietto, distrutto e mai sconfitto. Alla Pivano una volta confessò il suo antitotalitarismo e aggiunse: “Quest’ultima guerra l’ho considerata necessaria perché i tedeschi erano diventati impossibili e Mussolini stava rovinando l’Italia con la sua ambizione militare sbagliata, ma abbiamo soltanto combattuto contro qualcosa non per qualche cosa, gli slogan sono la solita merda di sempre… Detesto la guerra, odio l’esercito, ma mi piace molto combattere, mi piace fare l’amore, combattere, bere, leggere, pescare. Immagino che combattere e bere siano vizi ma mi piacciono entrambi”.

 

Camminava col passo piumato da ex pugile o, come diceva lui, da discendente di indiani 

 

Il suo universo dominato dal pensiero della morte, quella che chiamava familiarmente l’eterna puta, dove la grande divinità da pregare è il nulla.
Lo scrittore che passava attraverso le glorie della vita silenzioso, col viso percorso da ombre senza nome, in una specie di riqualifica esistenziale data dalla capacità di venire alla vita a livelli molto alti di consapevolezza e dignità, soprattutto di grande intensità, una morale fuori da ogni moralismo, fuori da qualsiasi regola fissata da altri. Era come se la vita per lui non avesse avuto un inizio ma ci fosse sempre stata, chiamato a interpretarla con uno stile, senza sovrastrutture.

Forse era questo che portava ad avere fiducia in lui, come fosse un marinaio che ha passato trent’anni in mare, o un montanaro che ha scalato la vetta più alta, se stesso; uno che dopo decine di battaglie perse era ancora in piedi, con l’esperienza transumana che serve per stare in silenzio e parlare solo quando si hanno mine da sputare.
Con i suoi mari, le sue foreste, i suoi orrori, le sue campane suonate dalla disperazione, dalla voglia di vivere tutto quello che c’è da vivere, tra piante tropicali, fiori esotici, tribù di gatti e anime in cui rifugiarsi, in quelle notti trascorse in alberghi di lusso su cui pisciare un po’ di resurrezione.

Quella capacità di far sentire i suoi lettori come membri di un club esclusivo, solo perché lo capivano, nient’altro; e a leggere i titoli dei giornali degli anni Cinquanta che lo giudicavano il più grande scrittore del suo tempo, gli si poteva dar ragione. E ora che siamo tutti fuori da quel tempo, dal tempo della generazione perduta, le parole dei suoi dialoghi serrati cadono col peso di chi ha saputo cambiare la letteratura mondiale. Capace di muoversi nella vita con quella stessa grace under pressure che guidava i suoi antieroi. Lucidità, efficacia dei movimenti, eleganza nell’esecuzione, senza badare alle probabilità di successo.

 

Il suo universo dominato dal pensiero della morte, quella che chiamava familiarmente l’eterna puta, dove la grande divinità da pregare è il nulla

 

Le sue innovazioni stilistiche e contenutistiche, il suo modo di narrare con una aderenza allo stomaco che era il dono di qualche sciamano in botta totale. Una roba resa ancora più preziosa perché conquistata attraverso rifacimenti e tagli severi che toglievano intralci all’espressione finale, quella che rendeva realistico ogni passaggio. Qualcosa che i critici di allora non capivano e ancora oggi la gran parte di loro fa finta di aver capito. Ma cosa vuoi capire se non hai sentito e vissuto manco mezzo minuto come lui?

Lui, Hemingway, che si faceva chiamare Mr. Papa dai suoi amici pescatori del villaggio Cojímar, a est di L’Avana.
Mr. Papa che aveva mandato 1000 dollari a Ezra Pound per aiutarlo a tornare in Italia dopo il manicomio, e 1000 dollaroni a Dos Passos quando si era ammalato. Mr. Papa che aveva aiutato una governante d’albergo di Cortina per un ricovero in una clinica. Mr. Papa che aveva mantenuto tutta la vita la madre terribile e pagato gli studi al fratello.
Con quel suo sorriso timido, disarmante, la sua parlata sommessa per dire frasi che a volte diventavano impercettibili, quel suo modo di mostrarsi del tutto scoperto, indifeso, vulnerabile, una fragilità che si nascondeva sotto la superficie della temerarietà.
Bastava non tradirlo per averlo amico. A Ezra Pound, per dire, non perdonava di essere diventato fascista, ma se lo avessero impiccato si sarebbe fatto impiccare con lui, in una conferma totale sia del suo antifascismo sia del suo essere lui e nessun altro.

Sempre alla Nanda disse: “Mi hanno dato il Nobel per Il vecchio e il mare perché in quel libro non ci sono parolacce”. Altro sorriso da una parte, altra amarezza sarcastica, la stessa che addensa le sue pagine più dure. Alla consegna del Nobel non si presentò; quando glielo portarono, pare abbia riposto “troppo tardi”. Un fortunato povero genio Hemingway. Meglio pensarlo fuori dal disastro. Cercare i suoi gesti familiari, quando guardava fisso negli occhi per vedere se l’episodio che stava scrivendo in quei giorni poteva funzionare; quando si mostrava orgoglioso di aver fatto bene qualcosa di difficile; quando teneva le mani in tasca e le gambe larghe per dire qualcosa di definitivo; quando si batteva per difendere l’identità di un amico; quando diceva di non aver mai scritto un romanzo ma soltanto di aver sviluppato racconti; quando leggeva per tagliare, mai per aggiungere, nello sforzo ossessivo di cogliere e fissare l’attimo; quando parlava in un bisbiglio per sminuire qualcosa di pesante; quando riferiva con disprezzo qualche adulazione che gli era stata fatta per interesse; quando diceva che i libri devono parlare della gente che si conosce; quando parlava dell’amore disinteressato della sua prima moglie, l’unica vera compagna di una vita: la donna che lo aveva sposato quando lui era solo un ragazzo sconosciuto e di scarse prospettive; o quando tirava giù la lista delle sue stronzate irrinunciabili, dove l’ultima imprudenza irrimediabile, l’ultimo irrimediabile gesto per sconfiggere la malattia, se stesso, fu quel colpo di fucile che gli sfracellò la testa.

Il suo primo lavoro che ho letto è The Sun also Rises (Fiesta). Un libro che sta in piedi anche senza appoggiarsi alla Parigi di quegli anni. E la corsa dei tori di Pamplona è solo colore.

 

Alla consegna del Nobel non si presentò; quando glielo portarono, pare abbia riposto “troppo tardi”

 

Lo pubblicò a ventisette anni, ché ormai lo sappiamo tutti: i predestinati diventano eterni prima dei trent’anni. Il finale di quel libro lo ricordo a memoria, pressapoco è questo (se non lo avete letto nessun problema, quel finale è una bomba che esplode solo se prima si legge tutto il romanzo):

“Oh, Jake” disse Brett. “Noi due saremmo stati così bene insieme.”
Di fronte a noi su una pedana, un poliziotto in kaki dirigeva il traffico. Alzò la sua mazza. La macchina improvvisamente rallentò, spingendo Brett contro di me.
“Già” dissi io. “Non è bello pensarlo?”.

Fiesta. È tutta una fiesta. Solo una grande fiesta. Gioire, scopare, piangere, pregare. Amare noi stessi. Amare qualcuno o qualcosa senza manco sapere perché. Il senso di tutto questo. Sarà la specie, sarà lo spirito. A noi non rimane che vivere. E comunque che cazzo di libro. Lo regalai alla madre di mio figlio. Anzi no, le consigliai di leggerlo quando la conobbi. In un giorno come gli altri, ma con più ironia in corpo. Che poi magari ci saremmo rivisti, chissà dove chissà quando. Un modo gentile per dire meglio lasciar stare. “Sai, io cerco la luce e tu non la hai”. Il giorno che finì di leggerlo mi mandò un messaggio: “L’ho lanciato addosso a una parete dopo aver letto il finale”. Chissà se farebbe la stessa cosa ora che siamo a un passo dalla separazione. “Non è bello pensarlo? Non è bello pensarlo?”. È una domanda che ultimamente pongo spesso a mio figlio, così, in silenzio: “Non è bello pensarlo?”. E lui mi guarda sorridente. Mio figlio che oggi ha 19 mesi e che quando sono fuori chiede a tutti: “Papà c’èèè?”, con una voce, un suono che dovete immaginarvi. Una domanda che mi fa venire in mente Guido Meda quando urla: “Rossi c’è!”. E che mi fa pensare al mio amico Moreno, e a tante troppe cose, a Ray, a Lorenzo, a Marco, perché è tutto un concatenarsi di immagini che arrivano fin qui, a writeandroll, alla society, alla mia setta dei poeti non ancora estinti, distrutti ma mai sconfitti, come intendeva Lui; quelli che prima di cercare gli obiettivi cercano loro stessi. Ed è per questo che quando sto per arrivare da mio figlio lo sento chiedere “papà c’èèè?” anche se magari non lo sta chiedendo, ed è così che di riflesso chiedo a me stesso: “Mr. Papa c’è?”; e allora aumento il passo da ex pugile: sono veloce, leggero come un indiano senza sella, che il peso del mondo è un peso d’amore, e allora potrei tutto, grace under pressure: “Papà c’è”. Mr. Papa c’è e ci sarà sempre, eterno, e anche se non è vero, “non è bello pensarlo?”.

@danpi

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