In questi giorni in Italia è stato proiettato The space in between, l’ultimo lavoro di Marina Abramović. Si tratta di un documentario che racconta la sua esperienza spirituale in Brasile. Dura quasi un paio di ore ed è stato girato nel 2013, dopo un periodo di forte crisi personale dell’artista.
Il Brasile. Un posto assurdo, fatto di esotico misticismo e frontiere a noi sconosciute. O basterebbe dire: un posto con la giungla.
La Abramović. Fondamentalmente una pazza totale. La guardi in faccia mentre parla e non puoi notare gli evidenti tratti di egomania e narcisismo che presenta. A volte mi pare una sorta di versione hippie super colta delle Kris&Kris. Frida Kahlo mista alla Bignardi in chiave te la meno tutta la notte con una performance che se si fa un account su FB magari ci scrive: città Milano (India). Dio sia grato a Virginia Raffaele per l’imitazione che ne fece.
Ma… C’è un ma.
The space in between è veramente interessante. Anzi è bello. La sua virtù principale è che ti apre degli squarci su un altro mondo: quello spirituale. Fin qui niente di nuovo, ogni giorno ci provano il Papa al tg, i testimoni di Geova fuori dalle fermate della metro, tua nonna che ti dice che pregherà per te. Ci provano ma niente… Nessuno ci riesce.
Perché noi dobbiamo correre e correre e correre e mica pensiamo a morire. Però tu sai che c’è qualcosa che ti sfugge. Lo sai ma non ci vuoi pensare. Rimandi tutto a un attimo prima di schiattare, quando ci si fa la pipì addosso e si chiama la mamma perché non si sa cosa c’è dopo. Quindi, benvenuti nello space in between, quello spazio in cui si è completamente aperti al destino, al nuovo.
Questo documentario racconta il viaggio dal guaritore Joao de Deus, uno in grado di aprire gente con un bisturi senza fargli provare il minimo di dolore, fino a santoni pazzi nel cuore della foresta, riti con la ayahuasca, medium che parlano della quarta e quinta dimensione e curatori di ogni sorta. Sono temi che si prestano alla facile presa in giro da parte degli scettici. Giustamente. Però come dire… È bello che sia un’artista a parlarne. L’altro giorno avevo davanti un numero di Toilette Paper che una volta amavo tanto. Lo fisso e penso: minchia che paranoia. L’ho buttato. Quelle immagini sempre lugubri, sempre sagaci. Sempre so tutto ma non so un cazzo. Ne ho abbastanza di quest’arte saccente, per colti, fredda, senza dubbi.
Invece qui vedo una sciroccata totale in cerca di attenzioni si, ma che fa riflettere me sul senso della vita. Su quanto faccio ogni giorno per me stesso oppure no. Su quante cose del mondo non conosco e non sono in grado di capire per limiti miei.
A volte aiuta molto dire: ok questo non lo so. Ti aiuta a imparare. O ti apre un mondo e basta che non è poco. Questo è il compito nobile dell’arte.
Bellissimo quindi il documentario. Ve lo consigliamo. C’è da chiedersi come mai non lo abbiano girato in Italia un tempo considerata una terra esoterica, religiosa, sacra, ora ormai ridotta a un branco di fuggitivi che si nascondono da tutto e parlano di politica o di stronzate. L’altra cosa che mi fa soffrire è che non sia stato un artista italiano a girarlo. Mi chiedo chi minchia siano gli artisti italiani e cosa facciano, cerco di documentarmi, guardo un po’ di cose, ma tolto Vezzoli gli altri mi fanno tutti annoiare. E questo un po’ mi dispiace.