Non avevo mai partecipato a un workshop di fotografia fino a febbraio, quando sono stato invitato al Btomic, il locale spezzino di Jacopo Benassi, per seguire il One Shot di Toni Thorimbert, noto fotografo di moda, reportagista e ritrattista. Questo è quanto.
Il sottotitolo del workshop era: La verità che ti trasforma. Che stronzata pubblicitaria. Ecco cosa pensavo nella mia testa nei giorni prima di andare al Btomic. E perché? Perché se non mi impegno sono un superficiale, come tutti. Perchè siamo invasi di messaggi che non capiamo e dopo cinque minuti anche una mela tagliata diventa nera e sei già stanco di qualsiasi verità a meno che non hai l’occasione di fermarti a pensare. Toni… Toni. Su Toni, che in questi anni ho avuto modo di conoscere, mi voglio concedere una piccola digressione (se non siete interessati saltate pure al paragrafo successivo). Per me Toni è Tonology, da quasi la prima volta che l’ho visto. Perché io do un nomignolo a tutti, è un cattivo costume ereditato da mia madre. Uno senza un soprannome per me é quasi come uno senza un nome, uno che non so inquadrare. E il soprannome non è che sia proprio per forza una cosa carina, anzi spesso è tagliente. Toni è una di quelle persone che diventano un punto di riferimento per molti, perché sa essere comprensivo e sa ascoltare e sa tirare fuori le cose dagli altri. Io però sono affascinato dal suo lato fuori controllo. La erre moscia, la gestualità da milanese anni 90 taaaaac, le ragazze di ogni età che lui chiama tutte piccola, i tatuaggi e il foularino fuori dai jeans e quella assurda moto nera pericolosissima che io spero sempre che non accenda. Toni le fie, toni le foto, Toni i libri, Toni a mio cuggino, Toni le instagrammate alle camere d’albergo, Toni la Rollei, Toni che traduce in inglese i suoi post sul suo blog e scrive english version. Ma tutto questo lato che se lo guardi con un attimo di giudizio si sputtana, tutto questo rumorino che faccio per descriverlo non fa che accrescere il personaggio. E io mi rendo conto che sto andando al corso un po’ per smontare il personaggio e dissacrare il Maestro, perché sono ancora un adolescente e ho bisogno di mettere in discussione le figure autoritarie e ora ho WNR e faremo il culo a tutti e saremo dei cowboy e anche mio padre vedrà! Oh sì, tutti vedranno. Detto questo…
[pullquote]La gente trema, tutti sanno di doversi mettere in discussione, tutti coi mezzi a disposizione ma forse con poche cose da dire. Il ritratto della mia generazione [/pullquote]
Il workshop propone una sfida, che io non colgo, viene effettuato in modalità One Shot, ovvero alla fine della giornata avremmo dovuto fare un solo scatto. Mi pare un escamotage ideologico e cervellotico, una menata da fotografi ma tuttavia mi presento al Btomic assieme agli altri. La gente è intimorita e tremante, tutti sanno di essere di fronte a un grande fotografo e di doversi mettere in discussione. Siamo una quindicina, fotoamatori per lo più o persone che stanno provando a lavorare nel campo della fotografia, magari con scarsi risultati o scattando ai matrimoni o per qualche ditta locale. Ed eccoci lì tutti con le Canon al collo… C’è della bruttezza nella nostra attrezzatura e nei vincoli espressivi che ci impone. Tutti uguali, tutti coi mezzi a disposizione ma forse con poche cose da dire. Il ritratto della mia generazione.
L’atmosfera è: sudorazione elevata, gente che balbetta, forfora, improvvisa voglia di fare pipì, stomaco ritorto. Si chiama nervosismo. Il set è un fondale nero, e c’è una modella diciannovenne che dobbiamo ritrarre. La giornata è divisa in due parti, un primo incontro di cinque minuti e degli scatti con la modella e poi nel pomeriggio lo scatto definitivo. Così noi partecipanti trottorelliamo intimoriti per la stanza aspettando il nostro momento fatidico. E cinque minuti sono pochi, e il fondale nero mi mette in crisi e bla bla. Quello che io sento è imbarazzo allo stato puro. Non ho voglia di espormi così tanto di fronte agli altri e non ho voglia tantomeno di fronte a Toni che nel frattempo mi spiazza e mi chiede di fargli da assistente per cronometrare questi cinque minuti. E così sto dalla parte del professore e vedo l’esame di tutti ed è illuminante. C’era così tanta tensione che la gente riusciva solo a entrare sul set e usare la modella come un vaso, spostandola a destra e sinistra per scattare decine di foto senza peso, senza contatto. Sembrava di essere in sala d’attesa al pronto soccorso, stessa atmosfera. Ogni tanto Toni si girava e mi chiedeva «Quanto manca?» sconsolato. La Paura era palpabile, ma non solo quella di relazionarsi al grande fotografo quanto quella di relazionarsi all’Altro o a tutti gli altri. E questo succede ovunque nella vita di tutti i giorni. Le persone si sfiorano di continuo e non si incontrano, le persone scrivono cose in cui non credono, le persone vivono vite che le limitano. Non è proprio questo il senso di diventare adulti? Non è essere se stessi? Il fotografo è un mestiere aspirazionale, pieno di fascino, uno si immagina le grandi avventure, il piacere di una vita di viaggi e persone interessanti. Beh non serve fare il fotografo per questo, serve di mettersi dentro a un’ottica diversa, accettarsi, conoscersi, scegliere solo quello che ci fa bene. A metà giornata c’era gente che stava per piangere, alcuni che dichiaravano «io smetto di fare questo mestiere» e una ragazza che è letteralmente fuggita. La fuga è il sentimento istintivo quando non riesci a farti carico di quello che vuoi essere. Conosco persone rintanate in uffici a nascondersi, rinchiuse in case con un compagno o una compagna con cui non parlano più, che escono la sera a bere come delle spugne e mettono i selfie su Facebook e poi le vedi che crollano un giorno e si mettono a piangere e non sanno perché.
[pullquote]C’era chi piangeva, alcuni volevano smettere, una ragazza è fuggita. La fuga è il sentimento istintivo quando non riesci a farti carico di ciò che vuoi essere[/pullquote]
Improvvisamente capisco che non siamo a un workshop di fotografia, ma che siamo a un vero esame. Mi è toccato, sono lì e me la devo cavare. La verità non ci sta trasformando ma ci sta ammutolendo e noi continuiamo a fare resistenza. Succede qualcosa dentro di me, come se prendesse il comando un me più profondo che di solito sta dietro, rintanato e timoroso e invece a un certo punto sale in superfice e parla. Non voglio fare il fotografo nella vita, non sono qui per fare una foto, mi son trovato di fronte a questo esame quasi senza averlo chiesto. Poche ciance, la modella è una giovane donna e la sua forza è tutta nel suo corpo. A quell’età si ha un coraggio scellerato, si è se stessi quasi senza capire i rischi che si corrono. Un pittore del Rinascimento l’avrebbe ritratta nuda per esaltarne la sacralità. Noi tutti la vediamo in qualche modo nuda. Lei è nuda forse perché cerca qualcosa ancora ed è persa nella selva, perché è appena nata, o perché è il suo modo di esprimersi, chi sono io per saperlo? Una ragazza che partecipa al corso col suo ragazzo è costretta ad ammettere una sorta di attrazione fatale (corrisposta) per quel corpo rischiando di mettere a repentaglio l’intimità col partner, invece riesce a fotografarla con una spalla scoperta e alla fine si abbracciano piangendo. Io faccio ancora meno, confesso la mia visione, chiedo alla modella di farsi ritrarre e la metto al mio servizio, la comando come se il set fosse davvero un set e lei una modella e io uno che cerca di dire qualcosa e gioco al fotografo per farlo. Mi sembra così giovane, così vitale, e la vita ha una carica erotica. Non c’è alcun trasporto erotico dentro di me ma può esserci fuori da me, in come la vedo. Devo dire la verità: la mente viaggia, l’ispirazione è un concetto che non può conoscere il giudizio. Toni ce lo dice: «Fottetevene del giudizio». Mi ricordo un mio collega un giorno che mi raccontava che la sua fidanzata lo aveva scoperto su YouPorn e c’era rimasta malissimo, si era arrabbiata e lui fingeva di esserci finito per sbaglio. Mi dispiacque molto per lui. La persona che si ama è la prima che non si vuole ferire, peccato che dirgli una bugia equivalga a farlo.
[pullquote]Toni ce lo dice: «Fottetevene del giudizio». E mentre scattavo tremava tutto perché io cercavo di essere io[/pullquote]
Entro per primo sul set, chiedo alla modella di essere se stessa, di lasciar andare quello che vuole far passare. Sono solo un cronista, ci metto solo un vezzo mio convincendola ad abbassare un po’ il vestito, non troppo, solo quanto basta, perché sono un esteta e oggi voglio fare il compito per bene. È come fare un patto: lei dice la sua e io dico la mia. Sto ammettendo di fronte a quindici sconosciuti che la vorrei fotografare in modo provocante e sembra una cosa da poco ma non credo che lo sia. Sono tutti seri, tesissimi, c’è un silenzio palpabile, una parola di troppo e tutto si sputtana. E poi tiro fuori il cellulare, perché la macchina fotografica è un attrezzone difficile da usare e io ho sempre il telefono in mano ci faccio le foto ai vecchi, ai cani e ci scrivo dentro. E poi dopo cinque secondi di silenzio guardo lei attraverso il display. E lì capisco come mai il corso si chiama One Shot. La foto la faccio giusto per il ricordo, Toni non l’ha nemmno vista, la foto non contava niente. Dovevo portare a casa la pelle e l’ho fatto. La mano mi tremava, tutto tremava e non era certo per un mezzo capezzolo, nemmeno per la ragazza. Tremava tutto il mondo perché io cercavo di essere io. Sono orgoglioso della foto, la considero il mio unico capitolo delle foto a una modella, la prima e l’ultima che ho fatto, per me perfetta, utile. Di altre non ne ho bisogno. Eccola.