In guerra è un libro scritto da Gabriele Micalizzi e Moreno Pisto ed è un libro che dovete leggere. Parla di quanto bisogna crederci per farcela, parla di attesa e rinascita; anzi, parla soprattutto di vita, morte e altre sciocchezze

In Guerra
21 Feb 2020

Più vero, più forte, più testardo

«Noi siamo reporter di guerra. Reporter. Di. Guerra. E sappiamo che morire è una eventualità pari a quella di fare una buona foto. Può non succedere, ma può anche succedere. Siamo samurai che accettano la pioggia». Gabriele Micalizzi

11 febbraio 2019. Il fotoreporter Gabriele Micalizzi è sul tetto di una palazzina a Baghuz, nel Kurdistan. Sta seguendo l’avanzata delle trup­pe curde contro l’Isis quando viene colpito da un razzo RPG. Si ritrova a terra pieno di polvere e sangue: ha il braccio sinistro maciullato, le dita mozzate, non vede e non sente più niente, non ri­esce a muoversi. E mentre aspetta soltanto di mo­rire dissanguato ripercorre le sue guerre, quelle intime e personali e quelle vere, vissute in prima linea: dall’Afghanistan alla rivoluzione delle ca­micie rosse in Thailandia, dalla primavera araba alla Grecia, dalla Libia all’Iraq, dalla Palestina alla Siria. Per testimoniare quello che succede, per raccontare gli orrori della Storia, «che non si scrive con la penna ma con il sangue», per lasciare un segno. Sfida la sorte, Gabriele, rischia di mo­rire ogni giorno, documenta la crescita e l’incubo dell’Isis, vede morire vecchi, madri e bambini, piange il suo amico fraterno, caduto sul campo, ma non si rassegna, non si ritira. Fino al giorno in cui tutto potrebbe fermarsi sotto le schegge di quel razzo. E in cui tutto, invece, ricomincia, an­cora più vero, più forte, più testardo.

Come è nato il libro

Come è nato il libro l’ho chiesto a Moreno. Mi ha risposto con un messaggio vocale. Se vuoi ascoltarlo dal telefonino clicca su “Listen in browser”; se invece vuoi ascoltarlo da desktop, clicca sul tasto play in alto a sinistra.

Siamo sempre In guerra

Ho conosciuto Gabriele Micalizzi tramite Moreno Pisto.
Ho conosciuto Moreno Pisto tramite la Write and Roll Society.
Ho conosciuto la Write and Roll Society tramite Ray Banhoff.
Ho conosciuto Ray Banhoff tramite Vitaminic.
Ho conosciuto Vitaminic tramite la musica.
Ho conosciuto la musica tramite mio fratello.
Ho conosciuto mio fratello tramite mio padre.
Ho conosciuto mio padre tramite la morte, la sua.

Queste righe che ho scritto andrebbero spiegate bene, ma questo non è Il Post. Facciamo che andiamo sul concreto.
Avevo quattordici anni compiuti da un mese quando è morto mio padre. Poco tempo dopo mio fratello mi regalò una chitarra e un paio di dischi validi. Da lì iniziò tutto: suonare, scrivere; scrivere, suonare.
Per quanto riguarda mio padre, fu investito.

Perché è così che funziona: una persona qualsiasi sale in macchina per tornare da dove è venuto, e nel mentre ammazza un altro uomo che aveva appena salutato suo figlio quattordicenne.

Morire è una eventualità pari a quella di nascere. Può non succedere, ma può anche succedere. E a volte può succedere a te o a uno dei tuoi.

Siamo sempre In guerra.

La morte è proprio una rottura di palle

(Estratto dal libro)

Il rumore è un po’ come quello che si sente nei padiglioni o nelle palestre, quando tiri forte e la pallonata colpisce il telone di plastica. Prima fa spench e poi èèèèèèèèèèè. Sento il rumore, vedo un flash, cadendo intravedo il capitano e un altro ragazzo sdraiati dietro di me. Mi devono essere saltati i timpani perché sono ovattato. Avverto mugolii di dolore che sembrano lontanissimi.
Primo pensiero: porco il demonio, è esploso un RPG.
Secondo: lo sapevo, dovevo stare contro il muretto, lo sapevo. Perché io il muretto lo avevo visto. Mi dovevo spostare. Volevo farlo. Perché non l’ho fatto.
Terzo: ora torno indietro come succede nei videogame e riparto dal momento prima che mi colpissero, solo che mi sposto, mi metto da un’altra parte, scendo giù da questa palazzina maledetta e il razzo se ne va affanculo.
Quarto: e invece no, non è un videogame. Non è possibile un’altra vita. Non si torna indietro, questa è la vita.
Quinto: va be’, è il mio momento, muoio così, alla fine dài non ho avuto una brutta vita, sono morto facendo quello che amo e basta. Mi dispiace per Ester e per le mie bimbe ma alla fine la mia vita l’ho fatta, è andata. Ester, Tecla e Guenda le avevo preparate al fatto che potesse succedere. Io stesso mi ero preparato a questo. Ho letto il Bushido, l’Hagakure, libri che ti insegnano l’autodisciplina della retta via, dove capisci che il samurai quando piove non cerca riparo perché sa che le gocce lo raggiungeranno e l’unica cosa che può fare è accettare che si bagnerà. In questo momento, il samurai sono io.

[…] Mentre sparisce la vista del mio ultimo cielo sento mio padre che mi dice: «Vai avanti Gabriele, vai avanti. Fottitene di quello che dicono. Vai avanti e vedrai…».

Nel nome del padre

(Estratto dal libro)

Mio padre, Daniele Micalizzi, faceva il rappresentante. All’inizio lo faceva per la Panasonic, poi è passato agli orologi, lavorava per la Swatch e per Tissot, infine per brand di occhiali. È sempre stato un venditore, fino a quando non è stato esodato. Veniva dalla Comasina, da via Teano, come i peggiori delinquenti della Milano che non era ancora la Milano da bere: alle elementari, era a scuola con Vallanzasca. Aveva la foto di classe e me la faceva vedere. Ed è anche per questo che forse mi piacciono le foto: testimoniano ciò che è successo, in faccia alla diffidenza e allo scetticismo. Mio padre non è mai stato un criminale, però la criminalità l’ha vissuta. Erano gli anni che si facevano le rapine. Una volta era in un bar, tre uomini hanno cominciato a sparare e lui e suo fratello si sono riparati sotto il tavolo. Io a questi suoi racconti ci credevo fino a un certo punto, perché mi sembravano molto romanzati, ma quando sono andato a lavorare alla New Press ho conosciuto Cavicchi, il fotografo storico del «Corriere» di Milano, che mi ha confermato molti dettagli. Mio padre, insomma, non diceva cazzate. Mi abbracciava spesso, e spesso era molto duro, ma lo faceva per spronarmi. A sua volta era stato trattato male, malissimo. Con il tempo abbiamo scoperto che è sempre stato dislessico, solo che allora, se sbagliavi i nomi e confondevi le lettere, ti portavano a fare gli encefalogrammi, altro che logopedia e piani di studio personalizzati. Un bambino non dovrebbe mai subire robe del genere. Ed è per questo che mio padre aveva scatti di nervi improvvisi, provava ansia e aveva paura di qualsiasi cosa. Per lui tutto era un problema. Eppure, se l’è sempre cavata, sapeva trovare le soluzioni per qualsiasi cosa. Si è dovuto arrangiare con quel che aveva. Ho imparato da lui che non bisogna fidarsi di nessuno, anche se forse qualche volta avrei dovuto farlo. A salvarlo è stato il calcio, che lo ha tenuto lontano dagli ambienti della malavita. Dal baretto del quartiere è arrivato fino alle giovanili dell’Inter. È stato il suo carattere a tradirlo: ha picchiato il mister ed è stato cacciato dalla squadra.

(Estratto dal libro)

Era bravo a rigirare le persone come voleva, quel tipo di cui diresti che venderebbe anche i cappotti nel deserto. Carattere furioso e paraculaggine: caratteristiche che mi ha lasciato in eredità. A un certo punto aveva un sacco di soldi: viaggiava, gli davano i premi, è stato uno dei primi ad avere il telefono in macchina, sull’Audi 100. Prima aveva avuto una Audi 80, è per questo che io se posso guido solo le Audi. Poi però ha avuto un’ulcera perforata a causa dei due pacchetti di Marlboro al giorno e degli ottocento caffè. Si è salvato per miracolo ma da lì la nostra vita è cambiata: hanno sbagliato a operarlo e non ha potuto tornare al lavoro per due anni. E così, da una situazione di benessere ci siamo ritrovati con le cartelle esattoriali nella cassetta della posta. Era un super brillantone, mio padre. Aiutava tutti, senza distinzioni, anche se aveva un brutto carattere. Non gliene fregava di dire quello che pensava, poteva farti fare delle figuracce atomiche ogni secondo. Ti spiattellava tutto in faccia. Anche questo è un atteggiamento che ho preso da lui. Però c’erano volte in cui mi sentivo più io suo padre che viceversa, perché era sempre lui quello da contenere. Aveva il terrore che mi potesse capitare qualcosa perché tanti suoi amici erano morti da bambini nei rifugi abbandonati della Seconda guerra mondiale, saltando sopra un residuo bellico o scavalcando un cancello. La guerra, insomma, era già in famiglia in un modo o nell’altro.

(Estratto dal libro)

Ero tornato dalla Libia. Avevo 150mila euro in banca. Ero leggero. Avevo reso i soldi al padre di Ester, gli avevo detto: «Grazie, mi hai aiutato tantissimo, adesso finalmente posso occuparmene io di lei e delle bambine». Dovevo ancora mantenere la promessa con i miei amici, però. Santo Domingo ci aspettava. Dovevamo essere in sette, ma alla fine siamo andati in cinque. Serate estreme, divertenti. E in più la sensazione che una volta tornato avrei avuto i soldi per viaggiare quanto volevo. Invece… Invece non faccio in tempo a rientrare in Italia che mi telefona mia madre: papà sta male, è stato ricoverato d’urgenza. Io arrivo subito in ospedale e parlo con il dottore, che mi dice: «Suo padre è spacciato, non c’è niente da fare».
Aveva metastasi ovunque. In quei giorni mi chiama il «Washington Post» per fare un assegnato. Ho ringraziato ma ho detto di no: lavorare per il «Post» era un sogno, ma sapevo che sarei potuto restare con mio padre ancora per poco. Lo sapevo che sarebbe finita male. Male e velocemente. Vederlo andare via tanto rapidamente è stata quasi una liberazione, però è stata dura guardarlo agonizzare ogni giorno, mangiato dal cancro. Lo osservavo e per rincuorarmi pensavo: «Alla fine ha sempre fatto quello che voleva nella vita».

(Estratto dal libro)

La sua è stata una vita difficile ma bella, bella perché difficile. Lui ne era soddisfatto nonostante l’ultimo periodo avesse perso il lavoro: questa cosa l’aveva sofferta particolarmente, per lui era stato umiliante. E l’avevo sofferta pure io, perché mio padre mi aveva trasmesso anche la paura di fallire. Ma il fallimento è un concetto nobile. Purtroppo noi viviamo in una società di merda che ci dice che dobbiamo essere tutti fighi, tutti belli, che dobbiamo aver successo… ma solo chi non ci prova non fallisce, e poi tutti i vincitori, prima di vincere, hanno perso tante volte, fallito tante volte. Il concetto fondamentale, se vuoi riuscire, è uno e uno solo, e il film su colui che ha fondato l’impero McDonald’s lo insegna molto bene: la perseveranza. Mio padre è morto dopo dieci giorni di ospedale. Era l’8 febbraio 2017. Dopo il funerale arriva il crollo. Ero devastato, bevevo, facevo di tutto. E per evitare di piangermi addosso avevo solo un’alternativa: ripartire. E ripetermi quello che mi diceva sempre lui: «Vai avanti».

Per leggere altri estratti dal libro, clicca qui.

@danpi

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