Chico, Chico… Chico. Chico è matto, Chico è un grande, Chico che palle, Chico gli voglio bene, Chico basta, Chico anche tu ci hai scazzato? Anche solo a scriverne il nome mi vengono in mente un sacco di cose.
Enrico De Luigi, detto Chico, è un fotografo riminese di cinquantun anni. Io l’ho conosciuto nel 2010. Avevo visto delle sue foto e ne ero rimasto stregato così gli scrissi su Facebook, che all’epoca era una roba per pochi, e cominciammo a chattare. Scoprii subito che era facile entrare in contatto con Chico, tu gli facevi un cenno e lui era lì pronto a parlare.
Questo pezzo è stato pubblicato su Urban Magazine
Questa e molte altre sul Blob, www.chicodeluigi.it
Per mesi divenni un assiduo frequentatore del suo sito (www.chicodeluigi.it) in particolare della sezione del blog, il Blob (mai nome fu più azzeccato) e studiai a fondo il suo lavoro. All’apparenza erano semplicemente foto, foto che a volte dicevi: questo lo potevo fare anch’io, ma solo in apparenza. Si trattava di tante foto, colorate, dinamiche, foto di persone di feste, di casino, foto in strada, ritratti, di tutto. C’era un’atmosfera viva, frizzante, potente. Quando conobbi Chico di persona, capii cosa rendeva le foto speciali.
In quegli anni Chico era una bomba a orologeria. Prendeva un lavoro a Milano ma invece che andare in albergo cercava di piazzarsi a dormire a scrocco in casa tua e li si insediava per giorni svuotandoti il frigo. La sua risata la sentivi a cento metri, troppo alta di volume e irregolare, simile a un grido di esultanza o a un chicchirichì umano sparato nelle orecchie. Girando la sera sui Navigli te lo ritrovavi di fronte con lo sguardo da pazzo e la vecchia Canon g11 (che ora ha ripudiato) a scattare. Estraeva la macchina da una custodia sdrucita allacciata sul fianco come un pistolero, velocissimo e silenzioso che manco te ne accorgevi e con quella BUM! sparava. Ti sparava. E sparava tanto, tantissimo, scattava a ogni ora in ogni luogo ogni cosa. Nel suo vortice tutto diventava materiale buono per il Blob e Chico era un po’ un Re Mida, quello che toccava e fotografava diventava oro e soprattutto diventava suo (persone incluse).
Proprio perché è più un artista che un fotografo Chico a volte tocca qualcosa di proibito e li succedono i casini. Per esempio era in grado di fermare una sconosciuta a una festa, imbambolarla e convincerla a farsi fotografare le tette. E quella che magari non lo avrebbe mai fatto ecco che opplà, si scopriva. Il giorno dopo la trovavi nel Blob, una vetrina da migliaia di accessi al giorno. Era tutto fantastico fino al momento in cui non si fissava sulle tette della tua ragazza, o della ragazza del tuo amico. Li di solito iniziava lo scazzo e le voci su di lui diventavano pessime.
Tuttavia la roba strana è che più lui era folle e spudorato, più la buttava in caciara, più la gente accorreva. Si spargeva la voce che c’era Chico in città e tutti volevano fare una cena o un’uscita. Tutti ambivano a farsi fare una bella foto da lui e avevano bisogno di farsi scombinare la vita.
Io ero uno di quelli.
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Ero giovane, Milano mi piaceva ma mi pareva troppo impostata. Chico era il mio mondo parallelo ed esotico, un mondo romagnolo, colorato, col flash, sgarbato, così poco italiano che mi divenne subito la mia America personale. Era l’unico fotografo italiano che conoscevo che oltre che bravo, sapeva essere ironico. Avevo voglia di vita vera e nel Blob di Chico De Luigi la trovavo, con tutte le sue contraddizioni, le sue sfumature. E poi cercavo un maestro, e lui in qualche modo un maestro lo è stato per molti, anzi con i suoi temutissimi workshop io penso che davvero abbia fatto scuola. Non ho mai partecipato perché giravano voci mitologiche a riguardo: gente nuda che scatta bendata, coppie che scoppiano, fighe fuori, gente che piange. Tutto ciò si chiamava NOPANIC. Di questa forza motrice che lo spingeva, Chico aveva creato uno slogan che era un manifesto, una parola che a dirla diventava uno stile di vita, la gente c’aveva le magliette con quella scritta. NOPANIC per l’appunto. Nessuno ha mai saputo cosa fosse veramente, se non la grande capacità di Chico di radunare persone, di fare casino e di scattare foto scombussolandoti tutto. Era un gran gruppo quello del NOPANIC, come una gang di persone affiatate che faceva perno attorno a lui. L’unica beffa del No Panic credo sia stata che questa volontà di potenza, fosse credibile solo nel suo fondatore, mentre sugli adepti aveva un effetto ridicolo.
Nel Chico mondo c’era il volume sempre a palla, però per tutti gli altri, i terrestri, la cosa più difficile era sopportare la pressione di Chico. C’era qualcosa di disturbante in quella risata e nel modo di fare che aveva, in lui stesso. Non a caso, per quanto la gente amasse le sue foto, la sua presenza fisica generava spesso attriti. Stava sulle palle a tanti, alcuni proprio lo odiavano e ne parlavano malissimo. Tipo che se c’era lui non si presentavano in un locale o a una cena. Con lui era tutto troppo. Troppe le foto che caricava sul Blob, troppi pentimenti il giorno dopo per aver esagerato, troppo scombussolamento interiore.
A me ad esempio, anche se mi voleva bene, mi pungolova tantissimo. Mi chiamava Giallu rivelando a tutti il mio vero nome, mi prendeva in giro e infieriva sulle mie insicurezze davanti a tutti (e io sono permaloso). Un’estate fu particolarmente stronzo con me e ci litigai, gli detti anche del “guru” e lui mi riattaccò in faccia urlandomi di andare a fanculo. Fu il giusto pretesto per togliermi da quella spirale di casino generata da lui e la sua cricca. La gente che gli stava vicino tendeva a imitarlo, a scimmiottarlo e lui non capivo se non se ne rendeva conto o se aveva bisogno di essere adulato. Fatto sta che non ne avevo più voglia di stargli sotto, volevo essere al suo pari ma era impossibile e così colsi la palla al balzo.
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Quindi venne il distacco. Non l’ho sentito per anni ma c’ho pensato spesso a lui e sempre con un senso di amarezza, mi bruciava essermi defilato e sapevo che in fondo era colpa anche mia. Poi un giorno ha suonato il telefono lo scorso inverno e ho visto quel nome sul display. Dopo anni. Chico De Luigi. Non volevo rispondere. Arriva Chico e arrivano i guai ho pensato, oppure gli serve qualcosa, perché lui chiama solo se gli serve qualcosa. Qualcosa gli serviva, ma a questo giro Chico era diverso, dette qualcosa anche a me. Mi ospitò a casa sua e mi fece esporre le mie foto e mi chiese scusa per il passato. Era cambiato. Si era separato dalla moglie, era più mite, riflessivo, faceva lunghi silenzi e sorrisi dolci, sembrava molto più grande, amareggiato, cupo, sapeva stare meglio in mezzo agli altri, ma gli altri attorno a lui erano molti meno. I tanti amici di un tempo si erano defilati e sentivo una certa amarezza nelle sue parole, si sentiva abbandonato, incompreso.
Gli anni del delirio sono passati. Quel Chico è passato. La sua casa è diventata Camerechiare, una sorta di tempio della fotografia in cui ospita le persone e al posto dei vecchi workshop collettivi propone dei lavori individuali che si chiamano One to One, insomma una casa laboratorio in cui butta tutte le sue idee, che sono sempre tante. Un po’ ci arrotonda anche perché il mercato è saturo e paradossalmente lavora meno in provincia dove non si azzardano a chiamarlo in quanto “fotografo delle star” e pensano che costi troppo…
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Una cosa però è certa. Le sue foto. Negli anni, anche se scatta meno, il loro valore non è mai calato. Hanno continuato a dipingere il suo mondo anche quando era depresso e per mesi scattava solo rami morti in bianco e nero sulle spiagge. Le sue foto sono veramente un lavoro artistico spesso e lui niente, non se ne è mai accorto, dice di non aver fretta, che va bene così. Chico ha costruito la sua carriera anche lavorando con l’editoria e nel suo caso penso sia stato solo un limite. Non ho mai visto una foto buona di Chico su un giornale, mai. Le sue foto vere sono nel suo blog, i suoi ritratti, era lì che lui doveva puntare tutto. Doveva fare l’artista, invece ha scelto di fare solo il fotografo e ha passato anni a cercarsi, a sminuirsi, a spingere e promuovere altri fotografi che per lui non lo avrebbero mai fatto e che a lui non gli legano neanche le scarpe, a spendere lodi per chiunque tranne che per se.
La notte di questo Capodanno abbiamo lavorato assieme a Rimini, lui aveva una stanza tutta per se e scattava ritratti bendato a chi c’era. La gente entrava e si sedeva al buio, con la musica altissima e la sbronza del cenone e lui bendato li tastava e scattava. Era bello anche solo da guardare, figuriamoci le foto. Ecco Chico De Luigi pensavo: un cazzo di fotografo della madonna, un fuoriclasse, uno che ti fa un ritratto anche bendato. Uno così ne nasce uno su un milione davvero. Solo vedere il suo lavoro mi fa passare il livore, la rabbia, il passato. Anche l’invidia che ho per il suo talento mi passa se vedo quanto è forte. Per me il suo lavoro è degno quanto quello di Eggleston o di Ghirri, di Teller o Gilden, dei grandi insomma. Altro che stronzate, che Milano che i giornali che le mostre in Triennale che le lectio magistralis che i social. Figlio d’un cane. E mentre lo fissavo ho pensato che ero contento di non averlo perso, di averlo conosciuto e che mi sarebbe toccato fargli un po’ male per dirgli che è un vero artista e che gli voglio bene.
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