Sali su un treno Frecciarossa e fatti un viaggio da Firenze a Milano. Un’ora e quaranta è un tempo ragionevole per farti venire voglia di fuggire dal genere umano. Uomini d’affari con camice Camicissima e completi scadenti intasano lo spazio del vagone con telefonate inutili. Il tono di voce è alle stelle, pare che sia improvvisamente fondamentale per loro parlare della cameretta dei figli alla moglie, pare che sia fondamentale che lo sappia anche tu, che rinchiuso in quel piccolo gabbiotto di quattro posti, mica puoi fuggire. E ti viene da pensare, ma fino a quindici anni fa questo in treno che faceva? O meglio, siamo diventati così moderni per questo? Per avere un apparecchio da 800 euro e caricare merdose foto su un social network o parlare per tutto il viaggio con la persona che ti aspetta al binario? E intanto diventa impossibile lasciarsi distrarre dal panorama degli Appennini perché il viaggio è ormai assieme al tuo vicino di posto, assieme a sua moglie, al loro weekend e a quegli accenti privi di vocabolario, a quei discorsi così distratti (perché lui magari manda anche le fondamentali “mail” – che nessuno chiama email, nemmeno il Corriere – dall’iPad).
Lui è Elliot, il protagonista della serie
Ma la colpa è un po’ anche nostra, come mi ha detto Gianni Mura. Parlava dei ristoranti milanesi, forse gli unici in Italia dove al cliente viene dato un tavolo a tempo. C’è tanta gente e ti viene chiesto di liberare il tavolo in mezz’ora. Una roba aberrante. Ma siamo noi in effetti che dovremmo dire no. Perché non ci riesce più di essere gentili e posati, sappiamo che se partiamo con quel no c’è il rischio di finire alle mani subito. Non c’è una scala di no che va da quello risoluto e sobrio a quello urlato. Ogni tanto ho sbuffato sui treni così tanto almeno da guastare le telefonate altrui. Un paio di volte l’ho anche detto, guadagnandomi la fama del più grande rompipalle del mondo. Occhi sgranati e sguardo che casca dalle nuvole dei miei nemici, come se dicessero: ma questo fa sul serio??? E nel mentre i vicini di posto muti come polipi paralitici, affogano di ansia chiamati in causa da me che cerco il loro consenso, convinto di stare interpretando anche un loro disagio, hanno lo sguardo strabuzzato e quel l’espressione da io non c’entro, non chiedete a me, io sono neutrale, IO NON VOGLIO GUAI. Quindi abbiamo sempre più di fronte ai nostri occhi l’alienazione delle persone nei loro telefoni. Gesù, tutta questa modernità. Quanta floscezza crea il digitare sui tasti. Che rumore molle e inquietante quello delle tastiere degli smartphone in un vagone della metropolitana. File di quattro persone alla volta col capo chino rinchiuse nel loro gesto. Polli. Più fai like su Facebook meno fai like nella vita. Non sono un trombone idealista, semplicemente lo noto.
Cito Paolo Rumiz: C’è un vuoto, anche voi ragazzi lo sentite. Avete internet? Vero. Ma venite a chiedere a un vecchio arnese come me. Avete bisogno di un testimone diretto del tempo.
E adesso possiamo parlare della serie tv. Si chiama Mr. Robot e debutta il 24 giugno in Usa, ma la potrete tranquillamente trovare in streaming.
Era dai tempi di Matrix e L’esercito delle 12 scimmie che non andava di moda un tema del genere. Il mondo è diviso in due parti: miliardi di persone che vivono una vita da schiavi e un piccolissimo gruppo di potenti che comanda in segreto. Nel mezzo una vita, la nostra, in cui scegliere è impossibile. La contemporaneità ci vive. Come recita il teaser di Mr. Robot:
La vostra testa è proprietà dei brand
I vostri soldi sono proprietà delle banche
I vostri rapporti umani sono proprietà dei social media
La privacy non esiste più
(a tal proposito guardatevi Citizienfour che racconta la vicenda Snowden dall’inizio e fatevi venire i brividi)
Siamo dei grillini impazziti che vediamo scie chimiche dappertutto non vogliamo vaccinare i nostri bambini e dobbiamo per forza legalizzare le canne se pensiamo queste cose? No!
Tornando a Matrix è facile ricordare la vicenda dell’eroe a cui viene chiesto sin dall’inizio di scegliere tra la pillola blu e la pillola rossa, sostanzialmente tra la verità dura e cruda e la vita tranquilla nella menzogna. È la stressa scelta che viene chiesta a Elliott, il ventiquattrenne protagonista della storia. Disagiato sociale, incapace di avere relazioni umane se non hackerando e spiando tutti, dalla ragazza che ama e a cui non si dichiara alla sua psicologa. Come Neo anche lui è un prescelto. Verrà infatti contattato da una anonima organizzazione di hacker sorprendentemente scaltri, capitanata da un misterioso personaggio interpretato dal redivivo Christian Slater. La banda di barboni bulli, di cyber ribelli, un po’ grulli un po’ cazzuti, che ha un unico grande piano, hackerare le più grandi multinazionali, gli Stati più ricchi, e creare una catastrofe finanziaria che cancelli il debito dei paesi poveri verso quelli ricchi. Tutti tutti uguali dopo il più grande reset informatico della storia. Un clic e tutta la nostra modernità va a farsi benedire. Mr. Robot procede con un’ironia disarmante e un ritmo che ti inchioda, merito del talento del giovanissimo attore che lo interpreta (un superdotato della recitazione) e per un altro grande motivo. Ti vien voglia di far parte di quella resistenza silenziosa a cui anche lui vorrà aderire. Ti vien voglia di entrare a far parte del fight club, che è di per se una cosa così anni ’90 che pare tutti ci siamo dimenticati. Sarà un luogo comune, ma è veramente fuori moda esprimere un dissenso che non sia ideologico. Si tratta di una serie tv ok, ma non potrete non ammettere che parla della nostra vita di tutti i giorni. Detto questo: un must see dell’estate.