Federico Sarica intervista Ferruccio De Bortoli. Quale futuro aspettarsi per Il Corriere e per l’editoria tutta? Per il Direttore èfondamentale recuperare il rapporto coi lettori. Per noi non basta

L’intervista di Rivista Studio a De Bortoli
10 Mar 2015

Premessa per i lettori che non seguono il giornalismo: De Bortoli è il direttore del più importante quotidiano italiano, Il Corriere della Sera, è dimissionario da mesi ormai, ad aprile si conoscerà il nome del suo successore. Forse, perché quando c’è di mezzo il potere non si sa mai. Poco dopo l’annuncio delle sue dimissioni, De Bortoli sul Corriere lanciò per mezzo di un editoriale in prima pagina i suoi moniti contro il Patto tra B. e Renzi (puzza di massoneria, scrisse). I commentatori dissero che era solo il primo di tanti editoriali che sarebbero venuti e che avrebbero fatto discutere.

In questa intervista a Rivista Studio, Federico Sarica domanda: come si fa a convincere le nuove generazioni che Il Corriere della Sera è sempre Il Corriere della Sera? Risposta di De Bortoli: «Dobbiamo riuscire a farli innamorare in qualche modo dello spirito critico che il giornale per sua natura promuove». Risposta che, con tutto il rispetto per il Direttore, suggeriamo noi: come fa il New York Times (ma gli esempi sono tanti e non tutti con le risorse del NYT, anzi: alcuni sono anche giornali locali), e quindi con un sito nativo, innovativo, pieno di contenuti e non solo con articoli brevi, richiami al giornale o alle altre riviste del gruppo. Bisogna investire in giornalisti, videomaker, infografici, in tutte quelle professionalità che nelle redazioni dei siti dei quotidiani non sono ancora entrate e, da quanto mi risulta, non ci sono nemmeno al Corriere.

Si va avanti e De Bortoli continua: «Se dovessimo essere guidati dai clic ci occuperemmo solo di cose sciocche, irrilevanti e molte volte false». E qui il terreno è scivoloso: la home del Corriere è da sempre presa a riferimento negativo, come panacea in cui vengono collocate notizie acchiappaclic. Vero, non vero? Controllo: nel momento in cui scrivo, per esempio, c’è tutta una spataffiata di notizie leggerine su Sanremo che, certo non sono il massimo dell’intelligenza, ma manco i gattini e le donnine. Però l’autorevolezza e la credibilità sono un’altra cosa online, eh.

Poi De Bortoli parla del futuro dicendo: «La grande sfida per noi resta il passaggio delle news gratuite online ai contenuti a pagamento». Perfetto, i contenuti però vanno prodotti, e prodotti in modo nativo (storytelling, snowfall, documentari, video alla Vox o alla Buzzfeed con Obama), a meno che De Bortoli non intenda il sito semplicemente come i pezzi del cartaceo messi sul web. E al che mi spingo a un appello: non fatelo, non è solo una questione di autorevolezza riconosciuta o no ma anche di mezzo. Le giovani generazioni non comprano i quotidiani non perché non li vedono credibili ma proprio perché non li vedono e basta. Non c’entra più solo l’alta qualità o meno del giornale, c’entrano i telefonini, i tablet, il linguaggio, la presenza sui social, la capacità di tenersi i lettori attaccati attraverso strategie e algoritmi. È un’altra cosa, la qualità da sola non è più sufficiente.

Nella seconda parte dell’intervista De Bortoli è più duro. Va contro i finti editori che si sono impossessati dei giornali, parla di rapporto «obliquo se non osceno» tra potere politico e capitalismo privato (guardate che per il direttore del Corsera non sono frasi scontate). Insomma, torna a bacchettare. Concludo con le sue parole: «Spero che sempre più giornalisti possano diventare editori di se stessi». Dopo essersi scagliato contro i grandi gruppi che vagheggiano branded content invece di investire nel rapporto coi lettori, non è proprio un augurio su cui evitare di riflettere. Però, poi, chi è che li paga? Qual è un modello di business che possa tenere insieme tutto ciò? Continuiamo a pensarci.

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@moreneria

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