«Il mio più grande limite sono le sopracciglia more (petardone dalle tribune!). In tv sono rifuggite come la peste, perché ombreggiano lo sguardo (confusione in mezzo al campo!). Anche Fabrizio Frizzi se le schiarisce (bordate di fischi impietosi per lui!). Io sono stato tentato un paio di volte (brivido!), ma grazie al cielo ho sempre resistito (non va!)».
Ascoltando Sandro Piccinini è impossibile non avvertire l’eco di quei commenti in levare che per un paio di generazioni sono diventati la quintessenza delle telecronaca calcistica. «Fino all’inizio degli anni 90 i commentatori erano quasi tutti scuola Rai: dizione perfetta, espressioni forbite, trionfo ipotattico. Mi resi conto che il 50% delle parole erano inutili e che bastava un nome ben scandito (Šcevčenko!) per emozionare». Non che sia un fanatico del progresso, il buon Sandro, tant’è vero che sulla scrivania del suo studio in Mediaset spicca un Nokia a mattonella verosimilmente fuori produzione da quattro o cinque anni. «C’ho provato con l’iPhone» assicura «ma i messaggi non riesco proprio a scriverli col touch screen». È però fanatico della paratassi e vittima di una specie di sindrome di Stendhal. «Durante il commento divento tutt’uno con la partita e parlo in perfetta sincronia con le azioni di gioco. Deve sentirsi il mio “rete!” prima del boato dello stadio, là dove Nando Martellini e Bruno Pizzul annunciavano il gol cinque secondi dopo che il pubblico aveva cominciato ad esultare». Le espressioni di cui sopra sono quindi nate in preda alla trans agonistica (sciabolata morbida!), anche se Piccinini non nasconde di aver replicato a oltranza quelle che incontravano il maggior seguito degli spettatori.
[pullquote]Fino all’inizio degli anni 90 i commentatori erano scuola Rai: dizione perfetta, espressioni forbite. Mi resi conto che molte parole erano inutili e bastava un nome ben scandito per emozionare[/pullquote]
Il Nokia è appoggiato sulla Gazzetta dello Sport, che titola Rossi di rabbia. «La cosa non mi torna, soprattutto dal punto di vista umano» aggrotta le sue sopracciglia incomprese. «Prandelli ha corteggiato Giuseppe Rossi per mesi a telefono, poi sul più bello lo rispedisce a casa dai Mondiali. Mah?!». Va tenuto presente che Sandro ha un rapporto tutto suo con le esclusioni. Figlio di un calciatore, morto quando lui aveva appena 14 anni, militava nelle giovanili della Lazio. A 16 anni il club biancoceleste, invece di promuoverlo negli allievi nazionali, pensò bene di cederlo al Latina Calcio. «Considerai l’esilio in ciociaria un terribile affronto e decisi di tentare, per vendetta, un provino per la Roma, allora allenata da Nils Liedholm, ex compagno di squadra di papà». Il provino durò 30 minuti, durante i quali Piccinini, dotato di poca corsa ma di ottima tecnica, tirò in porta da tutte le direzioni (destro a giro!) e segnò gol pazzeschi (gran botta!). «Sandro, tu studi?» gli chiese il Barone Niedholm a fine provino. «Sì» rispose lui. «Ecco, continua» sorrise il Barone. «Calcio è difficile, studio è sicuro» (malinteso tra i due!). Piccinini ammette che quella brusca disillusione fu per lui un’autentica salvezza. «Sarei arrivato, arrancando, non più in alto della C2». Solo grazie a questa esclusione gli si sarebbero poi spalancati i territori selvaggi delle tv locali, il Far West del tubo catodico (da lui raccontato a quattro mani con Giancarlo Dotto in Mucchio Selvaggio, Mondadori 2006). Nonostante Sandro puntasse ad approdare alla carta stampata e allora nessuno considerasse quello delle tv locali un vero e proprio mestiere iniziò a lavorare (gratis, per i primi quattro anni) per TeleRoma 56, l’emittente del Partito Radicale. «L’abusata espressione fantasia al potere in quel contesto aveva davvero senso. Ti dicevano, “c’abbiamo un’ora di trasmissione da riempire e manco una lira, fa’ un po’ te…”».
Nemmeno la Rai, sul finire degli anni 70, era però un congegno a orologeria. Le partite si potevano seguire per radio con Tutto il calcio minuto per minuto, ma inspiegabilmente solo dal secondo tempo in poi. Morale: il mercato aveva un buco di 45 minuti. «Ma per commentarle, le partite, bisognava guardarle. Noi non avevamo accesso alle tribune stampa perché in genere le emittenti locali erano considerate ricettacolo di canaglie, figuriamoci quella dei Radicali». Quindi setacciarono i dintorni degli stadi (cerca un’idea!) finché non trovarono delle terrazze adatte allo scopo. «Per esempio a Genova c’era un certo Fisco, nomen omen, la cui terrazza si affacciava sul Marassi. Ci chiedeva 100 mila lire per l’emittente e 10 per ogni persona. Con l’andare del tempo sviluppò un pacchetto premium: caffè a fine primo tempo, panni per scaldarsi le gambe, servizio taxi dalla stazione. Gli affari del povero Fisco subirono un inaspettato arresto solo quando il Marassi venne ricoperto in vista di Italia ’90 (Saluta tutti e se ne va!)». Ma, dopo qualche anno, il sistema mediatico istituzionale cominciò a evolvere come solo esso sa fare. Le idee più geniali partirono, come sempre, da Napoli. «Un giornalista partenopeo mi subaffittò la sua postazione stampa. Quando mi sono accomodato sulla poltroncina e mi sono portato all’orecchio la cornetta del telefono fisso da cui non proveniva alcun brusio, mi sono detto: “eccomi qua, sono arrivato.” (l’attesa è finita!). In quel momento comparve Carletto Juliano, addetto stampa del Napoli. Frugò nella tasca interna della giacca, estrasse un paio di forbici, tese il filo del telefono e…zac! (doccia fredda per lui!) Io lo guardai sconsolato, lui alzò le sopracciglia e fece solo “Eh”».
[pullquote]Durante un provino per la Roma Liedholm mi chiese: Sandro, tu studi? Risposi di sì. E lui: ecco, continua[/pullquote]
Piccinini approdò a Rete 4 nel 1984 e imparò la prima regola delle tv commerciali. A impartirgliela fu, guarda un po’, Silvio Berlusconi (ancora lui, il più atteso!). «Una trasmissione è un’enorme vetrina. I marchi che pagano per essere esposti vogliono ritorni, altrimenti non pagano più». Questo, spiega Sandro, non va necessariamente a discapito della qualità. «La qualità, sul lungo periodo, paga più di qualsiasi altra cosa». E Sandro ne ha le prove. Controcampo, da lui lanciato nel 1998 come concorrente della vetusta Domenica Sportiva, ebbe uno straordinario successo proprio perché rappresentava uno specchio sfaccettato della società, in cui il pallone diventava pure spunto per temi più vasti. «In una tv generalista non puoi disinteressarti della polpa, che è la stretta attualità calcistica, ma puoi cucinarla in modi differenti. Immaginammo quindi un talk show in cui una serie di maschere incarnavano dei tipi umani: ogni spettatore poteva immedesimarsi con una e odiarne un’altra. La gente mi chiedeva “ma perché continui a chiamare quell’antipatico di Mughini?” e io rispondevo “così t’è più simpatico Abatantuono” (squadre schierate. Tutto pronto!)». Nonostante queste soddisfazioni non ha più voluto essere assunto da Mediaset, ormai dal lontano 1996. Già, perché mai? «Innanzitutto perché sono matto, dal momento che avevo un mutuo da pagare. Ma sono fatto così, ho l’indole del free lance, mi piace decidere cosa fare di anno in anno. Per di più in azienda c’erano stati un paio di episodi che mi avevano…stizzito». Stizzito? «Sì, stizzito. Era un termine caro a Maurizio Mosca, con cui conducevo Guida al Campionato. In apparenza folle, ma in realtà grande personaggio, tanto che come vedi la redazione è ancora impregnata di moschismo».
[pullquote]Maurizio Mosca in apparenza era un folle, ma in realtà era grande personaggio, la redazione di Mediaset è ancora impregnata di moschismo[/pullquote]
Tendendo le orecchie, in effetti, nella redazione di Sport Mediaset si sente ronzare qualcosa. Che sarà mai? Sarà forse il fastidioso entusiasmo dei calciofili più sofisticati verso i nuovi mentori onniscienti di Sky Sport, vedi il sacerrimo Federico Buffa? «Una pay tv, che vive anche grazie agli abbonamenti, può permettersi livelli di share che una tv generalista, che campa solo grazie agli sponsor, non potrebbe permettersi. Le trasmissioni d’approfondimento di Sky sono molto belle, ma fanno il 2% di share: il grosso del pubblico se lo accaparrano comunque le partite (arriva a rimorchio!)». Ciò non significa che la cara vecchia Mediaset non abbia le sue gatte da pelare. «Ora Rupert Murdoch può permettersi di fare su scala internazionale ciò che faceva Silvio Berlusconi in Italia negli anni ’80. “Ecco, Mike, qui c’è un assegno in bianco. Scrivi tu la cifra”. Cose così. Adesso le reti sono gestite da ragionieri, che calcolano i risultati di trimestre in trimestre (rimessa per lui, Nando Sanvito per noi!), mentre per offrire un prodotto eccellente sarebbe meglio pianificare strategie a lungo termine, che magari nell’immediato non danno frutti».
Scendendo nel dettaglio delle telecronache, mentre il suo maestro fu Enrico Ameri, «in grado di tenere il ritmo reale delle partite anche se si mangiava le parole», i suoi pupilli sono stati Fabio Caressa e Massimo Marianella già ai tempi di TeleRoma56. «Ma da certi livelli in poi, è questione di gusti» spiega. «Difficile dire chi sia più bravo tra Caressa, Marianella, Pardo, Compagnoni, Trevisani, Callegari e Foroni (mucchio selvaggio con trenino!)». Sandro Piccinini, che ha commentato decine di finali Champions League, manifesta il rimpianto di non aver mai seguito un Mondiale. «Ma due cose mi consolano. Primo: per una volta ogni quattro anni, chi se ne frega. Secondo: non riesco a essere più un vero tifoso da parecchi anni e, se con i club ti salvi aumentando di un decibel l’esultanza per il gol di una squadra italiana rispetto a una straniera, temo che non sarei abbastanza sciovinista per commentare l’Italia» scherza. Quindi, per non sapere né leggere né scrivere, già bello abbronzato, eccolo che se ne va a svernare a Londra per l’estate. «Là c’è la mia fidanzata angloportoghese. Fa l’agente immobiliare. Qualche anno fa volevo comprare una casa a Londra e… (si formano le coppie!)». Eppure Sandro non si è mai sposato e non ha figli. «Non sono contro la famiglia ideologicamente, ma per ora non è capitato». (non sbaglia mai!)