Sardika è una città invisibile. La vedi se ci vai, altrimenti non ne senti parlare. Una guida turistica non esiste, se provi a chiederla la biondina del centro commerciale ti guarda stranita come per dire: «Ma dove cazzo vai, sfigato». E ha ragione. Io Sardika non l’ho mica scelta, ci sono capitato. Il volo più low cost di tutti, poi un click Google Maps per controllare dove si trova esattamente. Chissà come l’avrebbe raccontata Italo Calvino nel suo Le città invisibili. Come Zemrude, Sardika prende forma a seconda dell’umore di chi la guarda. Con gli auricolari e musica a palla cammini fischiettando e la scopri “di sotto in su”. Il campanile e le cupole dorate della cattedrale Alexander Nevsky sono imponenti, impossibile non alzare lo sguardo e farsi trascinare al suo interno. Dentro rimani avvolto dall’imponente collezione di icone ortodosse e dipinti, all’ingresso tre uomini con il grembiule nero ti guardano storto mentre ripuliscono i porta candele e continuano a spazzare il pavimento. Le vetrine che racchiudono le icone sono prese d’assalto dalle labbra dei fedelissimi, le impronte dei baci sono dappertutto, i segni della croce si sprecano. In quanto a devozione fanno dieci a zero anche alle vecchiette che popolano le nostre chiese. Quando da una delle cinque navate parte un canto incomprensibile, i pochi turisti tirano fuori dalle tasche i telefonini e corrono a fotografare quanto accade. È l’inizio della cerimonia di un battesimo: al centro dell’altare i patriarchi ortodossi e la famiglia si stringono attorno a un bambino di cinque anni che, una volta denudato dai suoi cari per essere cosparso di acqua santa, sembra molto più preoccupato dei nostri sguardi indiscreti. C’è chi se ne sbatte e scatta foto, io abbozzo un segno della croce e vado via. Come dalla Zirma di Calvino, da Sardika torni a casa “con ricordi ben distinti”.
[pullquote]Attraversi la strada e ti trovi nella location dell’editto bulgaro del 2002. Il tempo di un selfie e di un vaffanculo e ti ributti dentro Sardika[/pullquote]
I marciapiedi gialli, costruiti in occasione del matrimonio dello Zar bulgaro Ferdinando, ti guidano nel cuore di una città sospesa tra Europa e Russia, dove il passato è ancora più forte del presente e il futuro è appeso agli sprazzi d’occidente che iniziano a prendere forma: ti chiedi che cazzo ci faccia il Mac Donald attaccato ai minareti della moschea, ti capita di vedere una Ferrari parcheggiata nella via delle grandi firme, l’immenso poster della Cocacola che si affaccia su una delle principali piazze della città. Piccoli segnali di cambiamento in una città da lavori in corso. In Tsar Osvoboditel Boulevard le impalcature nascondono la chiesa russa di San Nicola. L’ingresso principale è chiuso, davanti una mendicante allunga il bicchiere e chiede anche solo un leva bulgaro indicandosi la pancia, io passo dritto come uno stronzo e inseguo due persone che stanno andando verso il retro della chiesetta. C’è una piccola porticina, una scaletta che porta dentro una piccola cripta invasa di candele e icone. Nell’atrio non ci stanno più di dieci persone, per respirare si deve entrare in una stanzetta accanto dove ci sono quattro tavoli e una ventina di signore che sono intente a scrivere su dei bigliettini bianchi ammucchiati al centro del tavolo. Non capisco, mi guardo intorno e alla fine mi decido a chiedere cosa sta accadendo. Una turista spagnola mi spiega che stanno scrivendo preghiere a San Nicola, la chiesa è dedicata al santo e dietro la stanzetta coi tavoli c’è una piccolissima navata con la tomba e le icone in suo onore. Le signore si sdraiano sulla tomba, la baciano, poi depositano i bigliettini in una cassetta di legno accanto al piccolo altare. «Chiedono un lavoro, serenità, salute, ma sono soprattutto le mujeres che fanno ste cose, non gli uomini», mi dice la signora spagnola. E probabilmente non è un caso se là dentro io e il marito della turista spagnola siamo gli unici maschi. Niente paura, io di preghiere da scrivere ne ho, e anche tante, e probabilmente un santo da solo non basterebbe. Prendo carta e penna e prego, San Nicola aiutami tu. Se ti spingi più in là, sempre sul marciapiede giallo, arrivi al centro del potere, quello politico. Davanti al palazzo presidenziale ci sono più camionette della polizia che turisti. Il cambio della guardia qui non è un’attrazione, due o tre persone che in quel momento attraversano la strada si fermano per la foto ricordo improvvisata. Niente più. Sarà colpa dei cartelli turistici scritti in cirillico se in pochi buttano l’occhio dentro la corte interna del palazzo, qui c’è la chiesa di San Giorgio: di epoca paleocristiana è considerata la costruzione più antica di Sardika. Il tour del potere si chiude nella deserta piazza dell’Assemblea Nazionale, attraversi la strada e ti trovi nella location dell’editto bulgaro del 2002. Il tempo di un selfie e di un vaffanculo e ti ributti dentro Sardika. Come Sofronia, Sardika “si compone di due mezze città” e forse anche di più. C’è quella “di pietra e di marmo” con la banca, i palazzi e tutto il resto. Nell’altra ci sono i parchi (tanti e ben curati), le vie del mercato, le bancarelle dove ti vendono le icone e mille altre cianfrusaglie, i senza tetto che dormono indisturbati nei parchi e sui marciapiedi, i cortei in strada contro i gay e quelli a favore dell’Ue, i ristoranti dove ti sazi con 10 euro. Nei giardini pubblici, davanti al teatro nazionale Ivan Vazov, al pomeriggio le panchine di legno si trasformano in scacchiere.
[pullquote]Le panchine di legno si trasformano in scacchiere. E al signore che mi ha sfidato gli avrei pure dato retta. Fargli capire che sono incapace è dura, e alla fine mi salva Roberto Baggio[/pullquote]
Attorno a chi gioca capannelli di curiosi, ma c’è anche chi aspetta lo sfidante e invita i passanti a sedersi. Io non c’ho mai saputo giocare, altrimenti al signore che mi ha sfidato gli avrei pure dato retta. Fargli capire che non è per sgarbo ma solo perché sono incapace è dura, e alla fine mi salva Roberto Baggio. Qui dici Italia e ai vecchi del posto gli torna alla mente la semifinale del Mondiale del 1994, quello giocato negli Usa. In quell’Italia-Bulgaria (mica Costarica…) il codino magico spense i sogni della gente di Sardika già nel primo tempo, era l’Italia di Sacchi. Quel 2-1 se lo ricordano bene, la delusione di quella semifinale è molto più fresca delle recenti qualificazioni agli ultimi Mondiali. Gli azzurri hanno fatto fuori la Bulgaria, ma la doppietta di Osvaldo del 2012 al Vasil Levski non se la ricorda più nessuno. L’Italia del calcio, qui, è Roberto Baggio. A Sardika, come nella Zemrude di Calvino, “non puoi dire che un aspetto della città sia più vero dell’altro” e puoi dire come della capitale Eutropia che “il viaggiatore non vede una città ma molte”. Anche per questo è difficile parlare e raccontare la città invisibile. Per capire qualcosa (mica tutto) devi parlare con chi ci è nato, o con chi ci vive da anni. Alessandro è uno dei 33 sardi che risiedono a Sardika. Una storia che meriterebbe un libro, dalla Barbagia alla Bulgaria per amore e poi una vita di successo e soddisfazioni. Chi è sveglio e ci sa fare qui ha tanto spazio, chi pensa di arrivare a Sardika con niente e trovare l’eldorado è destinato a fare la fine della mendicante che ho trovato davanti alla chiesetta di San Nicola. Colpa di qualche servizio trasmesso nelle televisioni italiane che ha fatto credere ciò che non è. La paga media di un operaio non supera i 200 euro, se non conosci il bulgaro (per studiare la lingua ci vuole almeno un anno) nemmeno ti prendono, un affitto in un posto decente che non sia il cubo-incubo di cemento all’estrema periferia di Sardika non costa meno di 250 euro. Caro disoccupato italiano, se non hai almeno un piccolo capitale da investire stai a casa, che almeno là puoi trovare qualcuno a cui chiedere un aiuto. Che a credere alle balle si rischia di finire come il viaggiatore che arriva nella invisibile Irene di Calvino: “…a vederla standoci in mezzo sarebbe un’altra città; Irene è un nome di città lontano, e se ci si avvicina cambia. La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui s’arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso…”. Sardika è anche come Irene: racconti gli episodi, gli incontri, le sensazioni, ma la città – anche se ci sei dentro – rimane “invisibile” agli occhi del viaggiatore. Torni a casa con la voglia di tornarci e con la consapevolezza che se aspetti troppo il futuro avrà già nascosto la città che hai vissuto.