Michele dice che a quest’ora c’è qualcosa di diverso. Non lo sa spiegare, non gli interessa farlo ed è per questo che non ha scritto ancora un racconto a riguardo. L’atmosfera è rarefatta e silenziosa. Siamo al bar Castello a bere grappa e l’orologio segna le sette del mattino. Il paese è vuoto, gli studenti sono appena partiti per il capoluogo con la vecchia corriera, gli operai di turno, giù a Melfi, lavorano già da un ora e gli agricoltori, a inizio dicembre, dormono senza troppi pensieri.
[pullquote]Non ho soldi, né risorse, né speranze. Sono l’uomo più felice del mondo[/pullquote]
Usciamo a fare un giro e raggiungiamo una specie di belvedere, una terrazza che si apre dalla chiesa più antica e che si affaccia sui tetti del centro storico. Lui inizia a parlare, io prendo appunti.
“Questo paese non è diverso da altri. La retorica della provincia, la voglia di evasione. Tutte cazzate. Io la mattina non mi sveglio neanche, e chi dorme, vado a letto direttamente di pomeriggio. Il discorso vero è che, a 33 anni, io sono vecchio. “Non ho soldi, né risorse, né speranze. Sono l’uomo più felice del mondo”. Quante stronzate si leggono nei libri.”. Dice proprio così, poi si soffia il naso e mi chiede perché voglio fargli questa specie di intervista. Non lo so, rispondo, forse perché sono uno dei pochi che ha letto le sue storie. Questa cosa non lo convince.
Parla ad alta voce ma non si gira mai, guarda dritto il panorama. Si accende una sigaretta dopo l’altra e poi indica la mia macchina fotografica. Dice di non voler esser fotografato. “Le immagini sono una truffa, meglio le parole”. Poi mette le mani sulla ringhiera e resta immobile per un bel po’. Io non so che fare, sono impacciato, non mi viene in mente niente di meglio da fare che mettermi a passeggiare sulla terrazza.
[pullquote]La retorica della provincia, la voglia di evasione. Tutte cazzate. Io la mattina non mi sveglio neanche, e chi dorme, vado a letto direttamente di pomeriggio.[/pullquote]
Quando sono lontano Michele riprende a parlare, mi avvicino e gli dico di ricominciare, di andare piano, che così poi prendo appunti.
“Una volta, saranno state le cinque e mezza del mattino, sono uscito per andare da Cosimo e prendere il caffè al bar Castello. Era ancora presto e mentre aspettavo l’apertura ho incontrato Rosetta che passava di là. Mi ha fatto un cenno di saluto e senza dire niente mi ha guardato negli occhi. Chissà cosa avrà pensato. Ho iniziato a seguirla senza pretese, come se fossi un animale da compagnia che non si fa troppe domande. Lei sapeva benissimo dove andare, mi era capitato altre volte, in passato, di vederla passare di buon mattino verso chissà dove.
Avremmo camminato forse cinquecento metri e poi svoltato verso la discesa di Santa Lucia, quella che scende giù verso la piazza grande. Pensavo di continuare a scendere per imboccare la strada che va nel centro storico. Ad un tratto lei cambia direzione e va a destra. Lì c’è un giardino privato con un cancelletto di accesso che è sempre aperto. “Vieni Michele, la madonnina ci aspetta”. Ed è l’unica cosa che le ho sentito dire quella mattina. Abbiamo passato più di mezzora lì dentro, lei inginocchiata vicino questa statua industriale della madonna, io seduto poco dietro, su una panchina di falso marmo. Probabilmente avrò pregato anche io. Non credo di averlo mai fatto prima di allora. Non negli ultimi venti anni. Non ricordo cosa pregassi, ma credo di averlo fatto. La cosa buffa è che non so che senso attribuire a questa storia. E va benissimo così. Penso che l’unica maniera sia descrivere senza pretese quello che ci capita, non esiste una letteratura capace di raccontare le emozioni che proviamo nel quotidiano in modo efficace, è il limite linguistico, il dramma che tutti proviamo. Nessuno ti dico, non Stenibeck o Tolstòj o che so io. E’ questo quello che mi interessa, la descrizione di ogni singolo frammento indescritto perché indescrivibile. Quando mi fumo le mie sigarette o adesso che parlo con te, quando bevo per pura abitudine, come tutte le cose che ci ostiniamo a fare”.
Mi ha lasciato lì a riordinare i miei appunti.
Prima di andare si è girato: “chiamami, ogni tanto”.
Ed è sparito così, mentre il sole saliva e le nebbia all’orizzonte, diradandosi, lasciava intravedere le brutture di ogni giorno.