Mentre lo fotografiamo si sente male. Sono le 12,30, ha già bevuto due margarita, il sole gli picchia sulla testa da ore e a un certo punto sbianca. Corre in bagno, vomita, Maria Sole, la compagna che gli ha dato una figlia, e Tommaso, amico, assistente, aspirante scrittore, lo accudiscono come un bambino. E commentano: «Abbiate pazienza, Massimiliano è un po’ così». Massimiliano Parente è spesso considerato un genio (da se stesso in primis), oppure un pazzo odioso (da se stesso in primis), sicuramente è uno dei migliori autori contemporanei italiani. Convive sia con un uomo, sia con una donna, si definisce realista reazionario, stalker, contrario alla procreazione e favorevole alla defecazione in pubblico. Collabora con Il Giornale, dopo aver scritto su quotidiani di destra come Il Domenicale (quello di Dell’Utri), Il Foglio e Libero. Però sì, forse il modo migliore per descriverlo è proprio quello: «Un po’ così». Tuttavia la prima domanda da fargli quando ritorna dal bagno e si siede a un tavolo del Caffè delle Arti a Roma, è un’altra: ma tu, come cazzo ti vesti? Dall’alto verso il basso indossa un paio di occhiali giallo fluo dalla montatura spessa, una giacca blu, una tshirt di Superman, un paio di jeans e le Nike con la scritta Max Fontana, il nome del protagonista del suo ultimo libro, Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler (Mondadori). Lui mi fissa per qualche secondo e risponde: «Me lo chiede sempre anche Vittorio Feltri. A dire la verità lui mi domanda: chi è quel criminale che ti pettina? Che vuoi, io sono flaubertiano, l’unica cosa di cui mi importa sono le mie opere, di tutto il resto me ne frega talmente poco che posso pure vestirmi in questo modo, come un bambino. Ordino su internet una quantità industriale di magliette sempre dallo stesso fornitore, da anni, gli occhiali me li faccio fare apposta da un’ottica di Venezia, e uso solo Nike Shox».
Da dove arrivi? «Io sono di Grosseto, ho fatto il liceo artistico poi mi sono laureato in Lettere a Roma in Storia dell’arte contemporanea, tesi su Marcel Duchamp. Dall’88 al 98 ho scritto tre romanzi, mai pubblicati, perché volevo trovare esattamente il mio stile. Tutto quello che scrivevo lo mandavo ad Aldo Busi e ad Alberto Arbasino, li stimavo, conoscevo ogni loro riga, invece oggi tutti mi scrivono, ci provano, ma non hanno letto niente, è la dimensione del social network, che ci vuoi fare. Proprio Busi fu illuminante, di un romanzo di 600 pagine mi disse di tenere solo il nucleo centrale, io capii che aveva ragione e quel pezzo è diventato La macinatrice, la prima parte di una trilogia che esplora l’universo umano nella sua totalità, continuata con Contronatura e L’inumano». Come ti sei mantenuto in quei dieci anni? «Fino alla laurea mi hanno aiutato i genitori, poi ho lavorato in alcune case editrici tra cui la Castelvecchi, come ufficio stampa, dal 98 al 2000. Ma nel 98 è uscito Incantata o no che fosse con la casa editrice ES e avevo già in mente dove volevo arrivare. È stato un percorso molto lungo, che mi ha portato a mettere da parte tutto perché scrivere non è un’attività che ti permette di fare altro. L’unica cosa che mi sono concesso sono state le collaborazioni con le pagine culturali dei giornali». Tutti di destra… «Veramente L’espresso mi aveva proposto una rubrica prima che cominciassi la mia collaborazione con Libero, però non potevo scrivere in prima persona né essere troppo polemico poi capitò un episodio che mi fece perdere del tutto le speranze». Quale?
«Venni a sapere che un’equipe stava traducendo lo Zibaldone di Leopardi in inglese, cosa mai stata fatta fino ad allora, pensa un po’, e si erano fermati perché non avevano più fondi. Io proposi a L’espresso di lanciare un appello agli imprenditori italiani e loro sai cosa mi risposero? Che non era abbastanza pop. Proprio loro, che pretendono di dare lezioni sul giornalismo di qualità. Alla fine l’appello l’ho lanciato su Libero». Risultato? «Mi chiamò Gianni Letta dicendomi che il progetto lo avrebbe finanziato Berlusconi, il quale nel giro di una settimana mandò un bonifico di 100mila euro. La cosa fantastica è che questi qui si sono presi i soldi, hanno terminato la traduzione, ma hanno rinnegato Berlusconi, che non ha mai ricevuto una copia né figura fra i finanziatori. Però non pensare che io dai lettori di destra sia visto bene. Molti cattolici attaccano i miei articoli, rompono il cazzo in continuazione, però col fatto che chi occupa i posti di potere nella cultura è di sinistra, sui giornali di destra sei più libero, anche perché qui le pagine culturali non vengono reputate così importanti e puoi scrivere quello che vuoi». In effetti hai un concetto piuttosto aperto di famiglia. «Non ero gay ma lo sono diventato per amore di Mario, stiamo insieme da 20 anni. Probabilmente sono sempre stato potenzialmente bisessuale, come credo lo sia chiunque abbia abbastanza immaginazione per essere uomo e donna al tempo stesso. Però con lui sono stato subito chiaro e gli ho detto: “Guarda, probabilmente avrò anche delle donne”. E come Mario è il mio amore omosessuale assoluto, Maria Sole è il mio amore eterosessuale assoluto, amata a tal punto che lei mi ha chiesto un figlio e io, essendo contrario alla procreazione, le ho chiesto di avere in cambio un scimpanzé e di non essere chiamato papà. Questo non vuole dire che alla bambina non voglia bene… Ora ha un anno e mezzo e mi chiama Max». Perché sei contrario alla procreazione? «Per presa di posizione biologica. Tutti sono contenti di fare figli e procreare ma in realtà fanno ciò che fa ogni animale, dalla cellula all’uomo, dal passerotto che fa il nido fino alla formica che fa il formicaio, e non mi sembra una cosa intellettivamente molto elevata, ma animalesca, appunto. Uno può replicare che questa è la natura, ma anche l’istinto alla violenza è natura, l’istinto alla guerra è natura e normalmente l’uomo è la negazione della natura. La natura stessa è una cosa devastante, è una lotta dove vince il più forte, chi si sa adattare. E io, rispetto a questa dimensione così tragica dell’esistenza, non riesco a pormi in maniera ipocrita, non accetto la finzione sociale. Sono contro la procreazione perché provo rabbia verso l’illogicità dell’esistenza». E il desiderio di avere uno scimpanzé cosa c’entra? «Gli scimpanzé sono i più vicini a noi nella scala evolutiva, si sono separati dall’uomo 5 milioni di anni fa. Ho pensato: accanto a uno scimpanzé un po’ si umanizzerebbe lui e un po’ mi scimpanzizzerei io, ci incontreremmo a metà strada. Con un bambino che mezza strada c’è? Male che vada diventa come me o ancora più stronzo di me. Già non mi sopporto io, figurati se sopporto uno più stronzo di me».