Archivi del mese: Aprile 2015

Salvini a Livorno

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Mercoledì ore 5:47, Romeo mi piazza una tallonata nel costato, mi sveglio e quella piccola motosega che ho nella testa inizia a ronzare, non riesco a prendere più sonno quindi mi alzo quatto quatto mi vesto ed esco.

C’è Matteo Salvini al mercato di Livorno, non voglio far tardi. Io la fotocronaca cittadina non la seguo, non è roba mia, faccio il fotografo di scena io, so una sega di fotogiornalismo io ma l’amichetto Daniele Stefanini mi dice che forse c’è tafferuglio e mi incuriosisce. Daniele l’ho conosciuto da poco ma è una di quelle persone che ti piace da subito, che ti sembra di conoscerle da anni. Daniele è un fotogiornalista e nella sua ricerca di notizie ha finito per farsi pestare bene bene per tre giorni di fila dalla polizia turca ad Istanbul nel giugno del 2013.

Sono uscito, alle 7:39 sono già nella piazza del mercato, in allestimento, come non l’avevo mai vista. Dani mi chiama, sta arrivando e mi chiede se ci sono camionette.

Camionette? Qua è il deserto.

[pullquote]Sono allibito dalla bruttezza dei simpatizzanti Salviniani. Corpulenti, mal vestiti e peggio profumati[/pullquote]

La piazza piano piano si popola di figure in giacca e cravatta e strane radiolione con antenne cicciute. Le forze dell’ordine stanno facendo un sopralluogo. Pare che il Salvini voglia fare un giro tra i banchi dell’ortofrutta, un dedalo di bancarelle, un labrinto, terreno perfetto per una guerra a son di ortaggi. Daniele arriva con le cispie agli occhi e poi arrivano anche gli altri. Il Tirreno, La Nazione, La Presse, Servizio Pubblicooooooo. Mi sono portato il 24-70 e chiedo a Dani perché non l’avesse montato pure lui. «Me lo son venduto per andare ad Instabul Pa’, avevo anche il 24 fisso ma me l’hanno fracassato i pulotti turchi Pa’. Questo è un 28ino reale faccio con quello che ho». Bravo.

I contestatori arrivano alla spicciolata, riconosco alcuni dell’Ex Caserma Occupata, il centro sociale dove vado a fare skate. Allo stesso tempo pare che la location per il comizietto sia stata identificata non lontano dal mercato e difatti noto i simpatizzanti del Salvini che stanno montando il banchetto mentre altri gonfiano palloncini con su scritto Fuori dall’euro. I Salviniani sono sicuramente una razza aliena, penso. Al loro interno immagino piccoli topolini venuti da una galassia lontana che guidano questi corpulenti pseudo esseri umani. Il loro scopo è colonizzare l’ItaGlia, da loro identificato come il Paese più decadente d’europa, terra fertile per gettare le basi della colonizzazione terrestre. Tiro fuori la macchina dallo zaino e scatto le gonfiatrici di palloncini.

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Magicamente le forze in stato antisommossa hanno creato cordoni di sicurezza intorno al banchetto alieno. Un tizio sudaticcio e scuro di carnagione che fuma sigarette una dietro l’altra senza manco spegnerle, dall’accento meridionale e con un microfono in tasca farfuglia qualcosa a Daniele che gli risponde a tono. Immagino il pilota topino giallastro inside intento a spipparsi grandi boccate di nicotina.

[pullquote]Alzo gli occhi al cielo e vedo passare uno, poi due, poi tre uova e poi pomodori. Penso al mio orto che ha bisogno di essere messo a posto[/pullquote]

Il banchetto è montato e oltre alla bandiera della Lega Nord sventola quella del Granducazzo di Toscana. I primi avventori sgomitano per firmare fantomatiche petizioni, oppure sono tesseramenti? Boh? Sono allibito dalla bruttezza dei simpatizzanti Salviniani. Corpulenti, mal vestiti e peggio profumati. Sono sempre più convinto del gomblotto alieno. Devono migliorare il loro cip per il linguaggio, ascolto i loro discorsi con fatica, non riescono a mettere in fila una frase con un senso. La maggior parte di loro sfoggia accenti meridionali. Il cordone di sicurezza è in funzione, sono alieni pure loro, hanno basettine e baffetti minuscolamente rifiniti, nascondono una maniacalità extraterrena. Da una lato il chioschetto leghista, dall’altro gli antagonisti, in mezzo la via Grande e alcuni vigilini urbani che regolano il lento flusso del traffico ciaccione. Solo i cronisti posso scorrazzare da una parte all’altra, l’informazione libera ha libero accesso.

Partono i primi canti dei contestatori, la romantica Bella Ciao echeggia sotto i portici della ricostruita via grande in stile anni di piombo. Che siano di un’altra razza anche loro? No impossibile, me l’ha insegnata nonna Dina Bella Ciao, è roba sana Bella Ciao anche se ora mi suona anacronistica.

Mi volto e vedo Daniele guizzare come un gattuccio, brusii ed eccitazione dei fans, sgattaiolamenti dei colleghi…Arriva il Matteo. Schivo un paio di mostri e me lo trovo davanti Cristo. Indossa una polo verde consunta e ha gli occhi gonfi e arrossati e mentre provo a scattare me lo immagino che ha fatto serata a troie e cocaina. In prima i fans che sgomitano duro come stronzi per avere la foto con il leader. Il primo è un ragazzetto dalla dentatura prospiciente.

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Matteo si concede, brevemente, anche si acchina per una migliore inquadratura poi un qualcuno lo veste di una felpa grigia con su la scritta amaranto L I V O R N O. Il fumatore incallito gli passa il microfono e lui sale più in alto di tutti iniziando il comizietto.

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Il suono è ovattato e scorgo sempre il fumatore che imbraccia l’impianto audio rivolgendolo verso l’alto. Non odo che poche banali frasi fatte dopodiché il microfono viene passato al candidato leghista alle imminenti regionali che inizia a sbraitare frasi fatte e luoghi comuni uniti a sputacchi e promesse improbabili. Ecco che il Salvini scende dal piedistallo, riacquista il sorriso e si concede ai più disparati selfie.

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Dei discorsi politici sembra non interessare a nessuno, i fans sono in adorazione, i contestatori intonano cori antifascisti a spron battuto, mi volto e vedo i genitori del ragazzetto dentato. Sono anch’essi dentatissimi e adoranti. Che siano alieni pure loro?

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Alieni/1

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Alieni/2

Il Matteo mani in tasca concede l’intervista all’emittente cittadina mentre le vecchie continuano a sgomitare con i loro tablet e telefonini in cerca di foto con il divo della patria.

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Dall’altra parte le bandiera del Che e quelle rosse onnipresenti.

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Mi allontano un altro paio di metri, alzo gli occhi al cielo e vedo passare uno, poi due, poi tre uova e poi pomodori. Penso al mio orto che ha bisogno di essere messo a posto. Mi metto a riparo mentre i colleghi impavidi continuano a scattare sotto la pioggia nutrizionale, mi vengono in mente le guerre tra surfisti e paninari nella Livorno fine anni ’80 e penso: che spreco di proteine, carboidrati e grassi. Ne ho quasi abbastanza ma l’uomo dalla maglia del Livorno impavido sale in alto e con il suo iPad filma il nemico.

[pullquote]I Salviniani sono sicuramente una razza aliena. Al loro interno immagino piccoli topolini venuti da una galassia lontana che guidano questi corpulenti pseudo esseri umani[/pullquote]

Poi fa gesti di abbondanza con la mano ed è lì che vedo il fatidico gesto del dito in culo, il fuck you, il dito medio. Alla base c’è Daniele con il suo 28ino reale che riprende tutto. I fischi aumentano a dismisura, il dito in culo ha agitato gli animi ma tutto si placa in pochi minuti tra i guaiti di quella e quell’altra fazione. Il Salvini nel frattempo si è imbucato nell’auto dai vetri scuri, giusto dopo qualche altro selfie e tutti si stanno ormai rilassando. Il tempo di qualche altro scatto alla solita bandiera che brucia e che puzza di plastica e decido di andarmene, robe viste e riviste, mi sarebbe piaciuto che il comizietto fosse andato deserto, in una Livorno in stile walkie dead ma capisco la rabbia e la frustrazione di chi il lavoro e la casa non ce l’ha per davvero è forte ma per questo non se la prende con i barconi carichi di dolore. Gli alieni invece stanno bene, uuuh se stanno bene, hanno paura che i poveri neri se li facciano a fette i loro opulenti corpi ciccioni. Una bella vecchia di spalle di viola vestita dalla chioma d’argento che con la mano destra porta una borsa piena di verdi baccelli e con la sinistra tesa stringe il pugno verso gli alieni.

Siam tutti fotografi siamo tutti alieni. Aiuto Moreno non so più come uscirne.

Più che una sborrata mi sembra di aver fatto una lunga cacata ma mi sento bene, dovrei farlo più spesso.

la foto della vecchia è di un certo Dario Fides

vecchia

 

Paolo Ciriello

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Cosimo Argentina

Cosimo_Argentina by Matteo Cavadini

È difficile definire ciò che mi danno i libri di Cosimo Argentina. Ci sono cresciuto tra le sue righe. I vari debosciati che appaiono nelle pagine li conosco meglio di certi parenti con cui non mi caco di striscio da anni, se non alle feste comandate. Argentina… il nome di una nazione che ha dato i natali al Diego. E anche il cognome d’uno scrittore poderoso, letale, un proiettile esplosivo. Cosimo Argentina è un tarantino classe ’63 che vive in Brianza dal 1990. Scrive da sempre ma riesce a pubblicare solo nel 1999 per Marsilio, esordendo con un intricato romanzo, Il Cadetto. Ma quest’uomo semisconosciuto doveva ancora lasciare il segno e lo ha fatto narrando soprattutto della sua città, della nostra città: Taranto. Una Taranto che vuoi o non vuoi appare distrutta, incontaminata, stuprata e macchiata indelebilmente. Vicolo dell’Acciaio (Fandango), Maschio Adulto Solitario (Manni), Per Sempre Carnivori (Minimum Fax) sono dei titoli incisivi, compari, nei quali Argentina eviscera una rabbia colossale, qualcosa che nemmeno lui sa da dove provenga. D’altronde è un tipo tranquillo, ‘sto cinquantenne docente di diritto. Anzi, quando lo vedi ti chiedi: «Cristo, ma uno col giubbotto Conbipel e la pressione alta come cazzo fa a scrivere delle pagine così atomiche?». Poi lo scruti un attimo, gli guardi gli occhi che ti crocifiggono lentamente, un chiodo nel polso per volta, e ti rendi conto che Emiliano Maresca, il protagonista della sua ultima opera, L’Umano Sistema Fognario, non poteva che crearlo LUI, Cosimo. Uno che scrive duro e ti lascia addosso una cicatrice infetta.

Giriamo due, tre ore buone per il manicomio di Limbiate poi, sulla Dacia Duster di Cosimo, sfanghiamo verso il Bar Blu Seves, ambientazione del suo secondo omonimo romanzo. Ormai è in mano ai rossi cinesi ma resta una delle stimmate argentiniane. Ci spariamo in battuta due Tennent’s e un panino imbottito e ce la dichiariamo senza bleffare che ci fa schifo ad entrambi, il bluff gratuito.

[pullquote]Nella mia vita ho un percorso mediocre: famiglia, macchina rumena, precario a 50 anni… Però quando mi siedo e scrivo non ce n’è per nessuno: IO SONO IL RE. IL TIRANNO. IL SOVRANO[/pullquote]

Be’ compare Cosimo, partiamo dal tuo ultimo romanzo, L’Umano Sistema Fognario. Grande Emiliano Maresca, un sociopatico sodomizzatore di sorelle, che però, però, tutto sommato, ha una sua logica, no? DEVE fare quello. «Maresca è un saggio, uno lucido nelle sue considerazioni. Il suo difetto? Non accettare compromessi. Piuttosto sta zitto. Il suo tallone d’Achille? Dover avere un cazzo di obiettivo per tirare avanti. Può essere il mito ancestrale di Anansa o il buco del culo del padre». Il buco del culo del padre…eh! Nei libri di Argentina, il padre del protagonista è fondamentale. C’è, non c’è, butta ceffoni come granate. «Ho utilizzato molto la figura di mio padre nei miei libri, perché ho avuto la fortuna d’avere un padre che era un personaggio criptico e mitologico… sì, lavorava all’ILVA, ma era un intellettuale. In Germania, lo vidi parlare dalle 8 di sera alle 2 del mattino in LATINO con un biondo tedesco. Perché mio padre parlava solo italiano e quello solo austo-ungarico, sicché s’accordarono sul LATINO. Mio padre non aveva la più pallida idea di cosa volesse dire essere un padre. Ero una fastidiosa escrescenza nel loro matrimonio. Ma io non la rinnego, ‘sta cosa. Che i figli vengano dopo il rapporto non è male. Anche se, inutile che lo neghi, mio padre era molto violento. Non sapendo e non essendo suo il ruolo paterno, appena c’era un problema lui SDRANGH! Alzava subito le mani sul malcapitato, me. Cinghie, mappini, calci, pugni. Rocky Balboa contro McMurphy…e io ero McMurphy». Un po’ come Ferdinand di Morte a Credito, no, che lui le piglia da destra e sinistra e manco sa perché.«Io, io voglio bene a Céline, al Maestro. Amo Ferdinand. Perché quando Céline dice “io non voglio fare letteratura. Io voglio scrivere le cose come stanno” io mi emoziono. Perché il vero scrittore deve scrivere le cose come stanno. Io purtroppo non sempre ci riesco. E qui c’aggiungiamo Stephen King, perché il VERO SCRITTORE, al di là delle doti velleitarie di scrittura, deve ricordarsi alla perfezione ogni ferita che ci portiamo dietro».

[pullquote]Il VERO SCRITTORE, al di là delle doti di scrittura, deve ricordarsi alla perfezione ogni ferita che ci portiamo dietro[/pullquote]

Le ferite quindi sono imprescindibili, dici? «Mah! Direi proprio di sì. Tipo, non sai Aldo Busi? Il suo primo romanzo, Seminario sulla gioventù, fu una botta. Poi vabbè, dopo… (e si beve una sorsata di Tennent’s per non infierire) però niente, ‘sto libro era fenomenale. E quando gli chiesero come mai era così carico di emotività, il romanzo, lui rispose che era tutto merito dell’infanzia triste. Che poi mica devono essere ferite da stupro, omicidio, rogo: bastano abbandono, difficoltà comuicative. Nemmeno ristrettezze economiche. E se rapporto a me questo algoritmo, io ho iniziato a scrivere perché in pubblico non parlavo mai, ero chiuso, e quindi iniziai a scrivere PER FARMI AMARE. Un modo per dire “ehi, ci sono!” Pensa che cazzata». Molto simile a chi fa graffiti, writing. Io per esempio iniziai a usare le bombolette per essere bravo in qualcosa, e anzi, iniziai perché volevo che i ragazzi della mia scuola mi chiamassero per uscire il weekend, dicendo robe del tipo “oh chiama Monfredi che è tosto!” «Sì, ci sta, il paragone c’è. Stando tra amici, mi spingo oltre, direi che ho iniziato a scrivere per avvicinarmi a mio padre. Con lui io non mi ricordo UNA che sia UNA conversazione, Lore’. A pranzo e cena tutti zitti, quando c’era lui. Testa bassa sul piatto e mia madre che ciancia di com’è aumentato il prezzo delle zucchine e menate così. Però lui era un idolo, a tutti gli effetti. Fa conto che lui m’ha lasciato quattromila libri… e quindi ‘sta cosa di scrivere era forse l’idea di dirgli “oh, amico, sto scrivendo così che tu possa leggere quello che io sento e avere un cazzo di rapporto decente”».

[pullquote]Io voglio bene a Céline, al Maestro. Perché quando dice: io non voglio fare letteratura, ma voglio scrivere le cose come stanno, io mi emoziono [/pullquote]

Ma quando tu hai iniziato a scrivere, lui t’ha mai… «E no, lui è morto nel ’92 ed ho pubblicato nel ’99 per la prima volta. E non gli hai mai fatto leggere un raccontino, una cosa? «Sì, una volta gli ho fatto leggere una cosa. Lui la sbircia e me la ridà dicendo “lass’stà ‘st’studicarije”, lascia stare ‘ste puttanate. Era un racconto in cui io stroppiavo di botte Craxi, lo uccidevo di mazzate. Bettino stava da qualche parte nascosto e io lo trovavo e lo crivellavo di pugni fino ad ucciderlo. E niente, mio padre mi restituisce i fogli con lo sguardo azzerato. Perciò nessuna fortuna, con lui. Zero soddisfazione». Le tue cose comunque colpiscono dentro, Co’. Io ho iniziato a leggere le pagine tue senza nessuna cognizione sulla Letteratura. Cioè, mi spiego: a undici anni Krol e il suo Cuore di Cuoio, e nel periodo burrascoso di trasferte ultrà, attivismo politico e risse, lessi Vicolo dell’Acciaio. E nella turbolenta stagione della maturità liceale, invece di scrivere la tesina, mi leggevo il mitico MASCHIO ADULTO SOLITARIO. «Secondo me tu hai colto una roba che io rivendico. Non dico di scrivere bene. Ma almeno rivendico ONESTA’. Se uno la coglie, come tu adesso, si lega alla scrittura perché pensa “questo qua non si vuole far bello, questo è uno che esibisce quello che vuole dire e quello che ha vissuto, robe però vere, follie vere”. Non metto scene splatter o altro perché VOGLIO stupire l’editore, perché voglio vendere. Io spiattello quello che mi viene in mente e basta».

Cosimo_Argentina by Matteo Cavadini

Questa chiacchierata me la porterò nel cuore fino alla morte, nella tomba. «E quest’intervista è un omaggio a te e a quei pochi che mi seguono. Dai, date un senso alla mia scrittura. Me ne fotto della legge dei grandi numeri della minchia. Io tanto non ci camperei comunque, con la scrittura. Insegno!». Credo che il tuo non essere un “professionista” della scrittura faccia tanto, anche. Cioè ‘mbà tu non smorzi mica i toni! Alzi sempre la carica del fucile! Sai no, tipo Palahniuk ha fatto Fight Club e altri due, tre libri cattivi. Poi è scemato in mezze commercialate, sempre folli, ma commercialate. «Da questo punto di vista, ho trasformato la mia debolezza in un punto di forza. Io non ho mai sfondato a livello numerico. La critica sì, ok. Ma non ho mai conosciuto la vendita enorme, tipo 50mila, 60mila copie. Ma manco 10mila, onestamente! E però se il mio primo libro, Il cadetto, avesse spaccato, forse ne sarei stato condizionato e avrei scritto storie sulla sua falsariga. Magari non sarebbe venuto fuori L’Umano Sistema Fognario, o nemmeno Vicolo dell’Acciaio. Io scrivo quello che cazzo voglio, in sintesi. Dinamite. Dinamite che poi fa creare dei legami coi lettori appassionati come te». Infatti mai sentito così a mio agio, Cosimo. Sarà che, leggendo i tuoi libri, ho capito alcuni meccanismi mentali tuoi, e mi sento fa’ che ti conosco da anni. È come quando mi leggevo Bukowski a manetta. Ci sono quelli che lo leggono per il sesso e l’alcol. Io son partito da quello e sono arrivato alla PIETAS di Bukowski, che è enorme. Il cuore di Bukowski è gigantesco, cazzo. «Persona Immensa. C’è un racconto suo, mi sembra si chiami 1 dollaro e 20 centesimi. Una signora porta il brodino a un barbone e lui lo versa dalla finestra. Il giorno dopo Mr. Barbone muore. E c’è una poesia, là, una sensibilità che molti pseudoscrittori sentimentali non hanno». Un altro che si trova nei tuoi libri è proprio Céline. «Alla Al Pacino: che te lo dico a fare? Morte a Credito, Casse-Pipe. Céline è il Compadre, no? È chirurgico quando scrive. Un folle chirurgo». Un folle come Bartleby, lo scrivano di Melville, no? «Che mi tiri in ballo! Melville là ti fa capire cosa sia il genio. Ti dice cos’è una forma di follia quotidiana che tutti abbiamo, io e tu ce l’abbiamo, e riusciamo a tenerla a bada a scudisciate interne ma certe volte non basta. Almeno, io non ce la faccio, non so tu. E manco Bartleby, alla fine». Lasciamo stare che volano bestemmie. «Infatti c’è Clara, mia moglie, che quando scrivevo Maschio Adulto Solitario passava dietro la scrivania e mi diceva “mi fai paura” e io la guardavo in trance e rispondevo “cazzo, è una cosa buona”». Il calcio, Cosimo. Il calcio. Quella sfera di cuoio che vale quanto pesa. «Io amo il calcio perché là i mediocri non vanno avanti. Non è come nella letteratura dove i mediocri, se scrivono due-tre libri pessimi, campano grazie alla critica. A ‘sto mondo ci sono degli autori insignificanti che campano di rendita. Cioè, ho visto gente pubblicare in Marsilio e subito dopo in Mondadori. Ma vaffanculo! Ora scusami ma vado a pisciare».

[pullquote]Io amo il calcio perché i mediocri non vanno avanti. Non è come nella letteratura dove i mediocri, se scrivono due-tre libri pessimi campano grazie alla critica[/pullquote]

Cosimo svuota le taniche, paga e c’imboschiamo di nuovo nel suo SUV Rumeno e ci dirigiamo verso casa sua, dove più tardi prenderemo un caffè. Nei tuoi libri ho notato due fobie, due fisse: una sono i tossici, che stroppiano Colombia in MAS e Palata in Vicolo. L’altra sono le inculate – coercitive e per scommessa – alle quali sottoponi molti dei tuoi protagonisti. «I tossici li ho conosciuti grazie a Clara, mia moglie. Lei gestiva un bar malavitoso, quello dove siamo stati mo’ e là ho conosciuto i peggiori fattoni». Ti sei mai fatto, tu? «Solo una volta, una mia amica senegalese mi fece assaggiare della roba africana e le gambe andarono in anestesia totale. Mi misi in macchina e dopo cinque metri andai a schiantarmi contro un muro. Invece la faccenda dei gay, beh…no, non ho mai inculato nessuno sebbene in molti ci abbiano provato. E ho avuto un amico che nel 1980 s’è ucciso perché i genitori non accettavano la sua omosessualità. Questo è quanto paga il banco». Comunque, come il padre, è importante la madre. O no? «Cazzo sì! Mia madre era la protezione, mi salvava da tante curve prese storte. Mo’ non c’è più e niente, una delle ultime cose che ci siamo detti è stata “sai, ma’, ho scritto e sto per pubblicare un libro” (per sempre carnivori, NDR) e lei mi ha guardato dicendomi “è un buon libro? Che si vende?” e io “no, però è un buon libro.” Lei non ha mai letto i miei libri. Li trovavo intonsi. E m’ha fortificato, ‘sta cosa. Perché invece conosco alcuni scrittori che si fanno correggere i compitini dalla moglie (e parte una risata, perché Cosimo intendeva dire i manoscritti ma gl’è uscito un compitini inconsulto e freudiano). Io impazzirei». Tu capace che senza la scrittura saresti stato coinvolto in qualche tentato omicidio. «Credo di sì, cioè, non so se avrei ucciso qualcuno o meno. Sono convinto che la scrittura m’abbia salvato da qualcosa di brutto, di malefico. Della serie: una volta, una mia amica che era salita su un cornicione e si voleva buttare, mi fece “COME CAZZO FAI A VEDERE LA MERDA CHE C’E’ INTORNO E A TIRARE AVANTI A VIVERE?!” e io le risposi “Io la scrivo e mi disintossico.”. Boh, per cui non so. Diciamocela, io nella mia vita ho un percorso vitale mediocre: famiglia, macchina rumena, precario a cinquant’anni…però! Però quando mi siedo e scrivo non ce n’è per nessuno: IO SONO IL RE. IL TIRANNO. IL SOVRANO. Un sovrano illuminato».

[pullquote]Con mio padre non mi ricordo UNA che sia UNA conversazione, e quindi scrivo forse per dirgli: oh, amico, puoi leggere quello che io sento[/pullquote]

Passiamo davanti alla Dresden, la fabbrica-incubo che, in Maschio Adulto Solitario, è l’enclave di Colombia, il protagonista, che lavora in questa fabbrica di tonno per qualche anno. Il cognato di Cosimo ci lavora e lui, per scrivere il romanzo MAS, ha braccato il cognato su turni/terminologia della fabbrica. Alla fine arriviamo a casa di Cosimo, un condominio marrone-beige con cancello automatico. Vicino a dove parcheggiamo spicca il 75, il civico 75, che nelle storie di Cosimo ritorna sempre. La Via Calabria n. 75. Saliamo e conosco Clara e i suoi due figli, Milena e Francesco, bei piccini. Una casa grande e legnosa. Odore di famiglia. Ma la faccenda seria è lo studio di Cosimo. Eh beh! Libreria ricolma di volumi di Céline, Dick, Melville, McCarthy, Hemingway, Bukowski. E le foto! Foto di Ferdinand, Hank, zio Ernest. Il tempio Argentina.

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Beh, andiamo nello specifico: Emiliano, no, nell’Umano Sistema Fognario sodomizza le sorelle senza troppi problemi. Però c’è il presupposto che sia in realtà Argentina a voler sodomizzare qualcosa nella letteratura contemporanea. Non so, eh! «Mmmh, lettura ardita ma potrei anche sottoscriverla. Io ho sempre mal sopportato la letteratura timida. Cosa intendo per timida? Uno che ha una bella storia in mente e che però non la racconta a dovere. Lo scrittore timido mi dà al cazzo. Come dice Crujiff: uno se la deve sentire di fare il calciatore. Sennò t’apri un tabacchino. È un urlo di dolore, quello di Emiliano, un j’accuse a un certo tipo di letteratura. Capisci quello che dico?». Come no. «Mica te l’ha detto il dottore di scrivere! Ti devi prendere i rischi. Esce tanta roba, ormai, ma il 90 percento è roba illeggibile. Non basta avere una bella storia e velleità di scrittura a iosa. Quello che conta è mettersi in gioco: quanto sei disposto a metterti in gioco?».

[pullquote]Non basta avere una bella storia e velleità di scrittura a iosa. Quello che conta è mettersi in gioco: quanto sei disposto a metterti in gioco?[/pullquote]

Pirandello diceva: o si vive, o si scrive. «Beh in parte la vedo anch’io così. Però senza vita non c’è scrittura. Sebbene ritenga che Pirandello intendesse dire che oh, inutile che vuoi avere una vita mondana. Vuoi scrivere? Vivi, fatti male, e passa in rassegna ciò che hai dentro. In realtà la vedo come Henry Miller: devi vivere in primis per poter narrare. Poi, la rinuncia, la privazione ci sta. Ad esempio, della mia scrittura ne risentono i miei figli. Loro il weekend vorrebbero magari andare a sciare e io sto chiuso in camera a scrivere, senza se e senza ma. Ovvio, per fare quello che faccio io ci vuole la compagna giusta, altrimenti non vai da nessuna parte. Devi essere fortunato. Devi trovare qualcuno che non te lo faccia pesare». Se ti dico “IL FAUT PAYER!” che mi dici? «Il Maestro Céline che ritorna! Cazzo se bisogna pagare. Se tu non scrivi qualcosa per cui non hai pagato amaramente non vale. È correlato al discorso di prima, al discorso di King. Una vita senza intoppi è una vita paradossalmente patetica, piana. La invochi per i tuoi figli ma alla fine non esiste. A me, ti dico, è capitato che la sera prima avevo parlato di Milan-Juventus con mio padre e il giorno dopo rispondo al telefono e mi fanno “Attan’t, tuo padre, è morto.”. Capisci, no? Non ne sono contento, sono andate così le cose. Però queste amarezze sono sfociate poi nella mia scrittura febbrile…e…e niente». Cinque scrittori senza i quali Argentina non sarebbe quello che è oggi. Ah, magari te li scoperesti pure? «L’unica che mi scoperei è Beryl Markham, ma mi sa che era lesbica. Ha scritto “Il magnifico Ribelle” ed Hemingway stesso ne rimase impressionato. Una belva pura. Numero cinque. A scalare, al quarto posto, metterei Edgar Allan Poe, il primo amore, e pensai “cazzo, magari provassi le emozioni che prova questo…”. Sul podio, terzo, ci mettiamo Bukowski. Lui ti fa a pezzi restando se stesso. Ti racconta quello che siamo senza inventarsi un cazzo. Secondo ci va un arabo, Mohamed Choukri, che impara a scrivere a quarant’anni in prigione e diventa un due volte candidato al Nobel della scrittura. Che voglio dire con questo? Voglio dire che il genio, il talento, se c’è resiste oltre le sovrastrutture. Oltre gli intellettualismi. E questa cosa delle sovrastrutture è predominante, in Italia. Melville, chi era? Un doganiere. Conrad? Un marinaio. Eppure! Ne hanno scritte, di bombe a mano. C’infilerei, ex-aequo con Choukri, anche Dick. Ah, e poi, al primo posto…». Pronostico: è un bretone, no? «E cazzo! Guardando in libreria becco “Viaggio al Termine della notte” – che già da sé solo il titolo vale il prezzo del biglietto – e mi si apre un mondo. Céline, sebbene abbia scritto alcune cose farraginose, lente, resta il fuoriclasse. Che dire? Tu fischieresti mai Baggio? No! Tu lo vedi giocare perché sai che ci sarà il lampo, il prodigio che varrà quello che hai speso. Con lui, con Céline, trovo uno scrittore che se la combatte con tutti. Insuperabile. Ha una dote unica: ha distrutto il romanzo tradizionale, ricostruendo il tutto con uno suo STILE PERSONALE. Non lascia eredità, gruppi letterari, spugnettamenti a vicenda: resta Céline». Se tu potessi dire qualcosa alla grande editoria, che le diresti? «Vaffanculo bastardi vi do fuoco. No, scherzo. Però direi di darsi un certo contegno. Tutti ripetono che il libro è un prodotto, un prodotto! Vuoi mettere la narrativa commerciale? Ci sta. Il libro di cucina? Ci sta. Però se avessimo visto i libri dei grandi Carnivori del passato – Dostoevskij, Kerouac, Céline – come PRODOTTI PER INTROITI, avremmo la metà dei capolavori che di fatto leggiamo. E poi vorrei dir loro: NON DISPERDETE IL PATRIMONIO GIÀ RIDOTTO ALL’OSSO DEI LETTORI. Ci vuole coraggio! Cioè, non puoi spacciare libri di merda come CAPOLAVORI, un termine inflazionato. Perché il lettore come te, come me, come tanti altri, alla fine s’accorge del bluff. Capisce che quello che sarebbe un “CAPOLAVORO” è una purga, e lo perderai. Ci lamentiamo di quelli che non leggono! Ma poi, se proponi libri insignificanti, è un effetto naturale».

Lorenzo Monfredi

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Peter Gomez

IMG_4237Peter Gomez cammina e parla al cellulare. I fili degli auricolari pendono da una parte all’altra mentre gesticola. La redazione de IlFattoQuotidiano.it è al quarto piano di un palazzone in zona Melchiorre Gioia, Milano. Le stanze sono spaziose, le pareti tutte bianche e ricoperte di ritagli, foto, prime pagine di Libero e Giornale (storica quella della culona sulla Merkel). Intorno a lui, alle sette di sera di un mercoledì, ci sono 11 ragazzi e una ragazza, e Gomez si muove da una postazione all’altra, poi si ferma, guarda in alto, abbassa la testa, avverte: «due minuti e arrivo», poi riparte. Davanti a me c’è un muro di faldoni, il suo archivio. Su ogni faldone i nomi di persone e casi (Mangano, All Iberian, Di Pietro, Craxi) che hanno segnato la storia italiana e anche quella di Gomez, uno tra i migliori giornalisti investigativi in circolazione prima di diventare direttore di questo sito. È stato: un pupillo di Indro Montanelli a Il Giornale e La Voce, inviato de L’espresso, collaboratore di MicroMega e fondatore de Il Fatto Quotidiano nel 2009. Si è occupato di corruzione politica, cronaca giudiziaria e mafia, temi sui quali ha scritto libri su libri, spesso in coppia con Marco Travaglio. I più recenti e famosi: Mani pulite, Mani sporche e Papi, tutti editi da Chiarelettere. Quando finisce di parlare al telefono ci fa entrare nel suo ufficio e sprofonda nella sedia. Qualcosa non torna. A metà intervista capirò cosa: è la prima volta che entro nella stanza di un direttore e non vedo un quotidiano che sia uno. Nemmeno uno dimenticato lì per sbaglio.

[pullquote]Il consenso si forma sempre di più in tv e sulla rete: un’inversione del peso politico di questi due media avverrà nel 2018, se va bene[/pullquote]

Allora, è vero: la stampa cartacea è morta. «No, però deve cambiare. Immagino che resteranno pochi giornali nazionali con molte meno pagine. E quelli che resteranno saranno quelli che avranno imparato a occuparsi molto poco di quello che la gente ha già letto online o già visto in tv e molto di più degli approfondimenti e delle opinioni. Perché siamo di fronte a un cambiamento sociologico, basta prendere la metropolitana e vedere quante persone hanno un quotidiano in mano…». Li conto ogni mattina e li twitto. In metro a Milano quei pochi che leggono un quotidiano hanno in mano un freepress. Unica eccezione: il giorno dopo la strage di Charlie Hebdo. «Certo, perché la gente compra un quotidiano per conoscere un punto di vista a cui altrimenti non avrebbe accesso. Poi bisognerebbe capire come mai non restano attaccati. Ma non è una questione legata solo alla crisi, al costo dei giornali o alla loro scarsa creatività: è legata ai tablet, ai telefonini, all’utilizzo che facciamo dei computer. I giornali devono essere ripensati, ma non penso che moriranno mai del tutto finché non ci sarà un’innovazione tecnologica che riuscirà a sostituire la carta. Un tablet e un telefonino sono comodi, però non danno lo stesso piacere di lettura. E poi i quotidiani in Italia restano in piedi anche per interessi politici». Però Renzi sembra fregarsene dei quotidiani, non ha fatto granché né per salvare L’Unità né Europa, come se non ne avesse bisogno dei giornali. Una rivoluzione? «Sa benissimo che il consenso si forma sempre di più in tv e sulla rete: un’inversione del peso politico di questi due media avverrà nel 2018, se va bene. Però bisogna considerare che in Italia i grossi siti d’informazione sono il Corriere e Repubblica, che possono piacere o meno, ma che non sono altro che un’appendice del quotidiano. In ogni caso sono contrario al finanziamento pubblico alla stampa». Ma perché non capiscono che online e carta sono e devono essere due cose differenti? «Magari lo hanno capito ma di fatto usano strategie che cannibalizzano la carta. Repubblica, per esempio, sceglie di mettere il fondo domenicale di Scalfari alle 7 del mattino, il Corriere invece pubblica sempre i pezzi di tutti i suoi opinionisti, ma se queste cose le leggo online, che interesse ho a comprare il giornale? Noi Travaglio lo usiamo una volta alla settimana, se no chi vuole leggerlo paga e compra il quotidiano. Ma va considerato che in un mondo normale RCS sarebbe fallita e chiusa». Invece… «Invece ci sono degli interessi di politica economica che tengono in piedi i quotidiani. Il motivo per cui l’imprenditore Angelucci a un certo punto acquistò sia Il Riformista sia Libero era che, occupandosi di cliniche, aveva bisogno di un giornale di sinistra e di uno di destra per avere buoni rapporti con le Regioni… Quindi anche se Libero perde 5 milioni di euro, rientri da altre parti».
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eccolo qua un pezzo del suo archivio

[pullquote]Guadagno intorno ai 150, 160mila euro lordi all’anno. I miei giornalisti possono arrivare fra i 2.500 e i 3mila euro al mese[/pullquote]

Il Fatto Quotidiano.it come sta andando? «Molto bene. Ieri Audiweb ci dava 948.550 utenti unici, tre milioni e 470mila pagine viste, con un tempo medio di permanenza di tre minuti e 47 secondi per pagina, con picchi di durata di permanenza nel sito di 14 minuti. Se non calcoliamo i siti partner noi dovremmo essere il terzo sito italiano di news dietro di molto al Corriere e a Repubblica, ma davanti a Messaggero e Stampa». Chiariamo cosa sono i siti partner. «Da sempre Audiweb permette di calcolare come proprio traffico anche quello che deriva da siti collegati al tuo ma che col tuo non hanno niente a che fare. Facciamo un esempio: La Stampa come sito partner aveva Medici Italia, Repubblica ha Tom’s Hardware, roba da 250-300mila utenti unici al giorno: questi dati non hanno fatto altro che drogare le classifiche e confondere gli investitori. Tutto regolare, per carità, ma la sostanza non cambia. Il Messaggero per esempio ne ha qualche decina, di siti partner. Ma da gennaio dovrebbe essere partita la prima rilevazione Audiweb depurata e tra qualche mese dovrebbero arrivare i dati. Saranno importanti per la pubblicità». Modelli di business utili per i siti d’informazione: paywall, pubblicità, altro?… «Per noi il paywall non penso possa funzionare, perché non abbiamo abbastanza contenuti né storia alle spalle, invece Repubblica e Corriere potrebbero farlo, soprattutto sui contenuti del cartaceo, anche se loro hanno già talmente ricavi pubblicitari che non hanno interesse a sperimentare altre forme. Repubblica.it incassa 50 e passa milioni di euro, Corriere.it quasi lo stesso. Noi invece che siamo costretti a inseguire la pubblicità stiamo pensando anche ad altre fonte di reddito». Quali? «Innanzitutto migliorando e stringendo il rapporto con i nostri lettori, magari con una sorta di abbonamento al sito su base volontaria e poi con una coda lunga di ricavi che passerà attraverso l’e-commerce. Io penso che se il sito del Fatto esistesse da 12 anni invece che da 4, come quello della Stampa o del Messaggero, probabilmente avrebbe una raccolta pubblicitaria non di 3 milioni di euro ma sugli 8. Sul web funziona così: se quest’anno ho 100 investitori e sono stato bravo l’anno dopo li tengo tutti e in più se ne aggiungono altri, quindi esserci da tanto tempo è importante». Un anno fa dicevi che un terzo del tuo stipendio lo pagava la carta. Adesso?
 «Un po’ meno, però nemmeno quest’anno raggiungeremo il break even perché abbiamo previsto 4 milioni di investimento». In…
 «Nuove sezioni per andare a prendere un pubblico maggiore e diverso rispetto a quello che di solito ci segue. Siamo partiti con FQ Magazine, un settimanale più leggero perché non si vive solo di giornalismo di hard news. Poi stiamo cercando di incentivare il rapporto coi lettori, lavorando su una parte fatta con contenuti segnalati o prodotti dai lettori stessi». La nuova tendenza sembra essere il data journalism…
 «Nel nostro piccolo lo facciamo, è molto bello ma non ti porta traffico». 
Ti manca il giornalismo investigativo? 
«Adesso no, ma so che probabilmente, tra un anno e mezzo o due, mi tornerà la voglia di scrivere. Per il momento ho l’ambizione di dimostrare che questo sito possa giocare lo stesso campionato di Corriere e Repubblica. Certo, noi non raggiungeremo mai i tre milioni di utenti unici al giorno, ma a 1,5 milioni quasi due ci possiamo arrivare nel giro di un paio di anni, facendo un giornalismo di qualità, senza donnine o gattini». Una volta era luogo comune pensare che su internet gli articoli dovevano essere brevi, oggi una delle tendenze è il longform e voi, tra i quotidiani online, siete quelli che fate gli articoli più lunghi… «La parte scritta deve essere lunga quanto serve, punto. Sulla carta come sull’online. La regola, in un pezzo di cronaca, sarebbe una riga una notizia».
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Un A4 in redazione. È bene ricordarsi di non prendersi mai sul serio
[pullquote]Abbiamo previsto 4 milioni di investimento. Siamo partiti con FQ Magazine, un settimanale più leggero, e stiamo cercando di incentivare il rapporto coi lettori[/pullquote]
Qual è la tua rassegna stampa?
 «A mezzanotte guardo Il Messaggero, che a quell’ora è già online. Poi mi sveglio alle 7,45 e fino alle 9,30, sul tablet leggo Il Fatto, il Corriere, la Repubblica, Stampa, Sole24 Ore, il Giornale, Libero e il New York Times. Mentre leggo faccio gli screenshot delle cose che mi sembrano interessanti e le mando in redazione, così chi arriva le trova». Siti?
 «Un po’ di tutto, soprattutto Internazionale, Politico, Gli Stati Generali». Escluso il Fatto, qual è il miglior quotidiano in Italia? «Il Corriere della Sera. Ma diciamo che è il meno peggio, perché nonostante tutti i suoi limiti è il giornale dove trovi il maggior numero di informazioni e storie. Molto buono è anche Il Secolo XIX». Chi potrebbe essere il direttore ideale del Corriere? «Non posso farti un nome, ma un identikit. Deve avere 42, 43 anni, una forte esperienza digitale e la consapevolezza di guidare Il Corriere della Sera, un giornale che non può permettersi di genuflettersi ai potenti». Oggi più dei giornali contano i giornalisti. Cosa ne pensi? «È scontato: se i giornali non riescono ad apparire affidabili, è ovvio che il pubblico si affidi a delle persone che invece sono ritenute credibili. Noi abbiamo fatto lo sforzo di spersonalizzare il sito, di far sì che la garanzia sia il sito stesso per chi ci legge, indipendentemente dalle firme». Quali sono i giornalisti da seguire? «Marco Lillo del Fatto, il più bravo di tutti. Domenico Quirico de La Stampa, Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo del Corriere, Franco Bechis di Libero. Ma ce ne sono tanti, come Paolo Biondani sempre del Corriere, Fabrizio Gatti de L’espresso, Ruotolo de La Stampa. Ci sono due problemi però: nessuno di questi è giovane e ognuno di loro, tranne Lillo, deve fare i conti con una linea editoriale gradita alla proprietà». C’è chi sostiene che il giornalista verrà pagato sempre meno e vivrà con gli eventi, i dibattiti, i workshop… «Può essere. Non credo che nei giornali del futuro ci potranno essere dei buoni stipendi e sarà difficile pensare alla grande firma che guadagna 400, 500 mila euro l’anno. Ma se uno è onesto con se stesso e ha deciso di fare il giornalista, sicuramente non lo ha fatto perché pensava di diventare ricco».

Peter Gomez
[pullquote]Il nuovo direttore del Corriere dovrà avere 42, 43 anni, una forte esperienza digitale e la consapevolezza di guidare un giornale che non può permettersi di genuflettersi ai potenti[/pullquote]
Quanto guadagni? 
«Intorno ai 150, 160mila euro lordi all’anno, tenendo conto che mi entra parecchio dai diritti per i libri. Ma da tre anni non ho tempo di scriverne nuovi: prima guadagnavo di più infatti». E i giornalisti che sono di là? 
«Quelli che hai visto sono assunti con regolare contratto giornalistico e tra straordinari e due domeniche al mese quelli con più di 30 mesi di anzianità possono arrivare fra i 2.500 e i 3mila euro». Voi producete anche molti video… «Paghiamo i free lance tra i 70 e i 130 euro a video, pochissimo. Io vorrei dargli più soldi ma non li ho». Il budget mensile che avete per fare il sito?
 «Intorno ai 25mila euro». Sempre più lettori arrivano dai social, come pensate di trattenerli e non farli scappare subito via? 
«Abbiamo fatto una piccola riforma grafica: in ogni pagina mettiamo l’home page sulla destra cercando di convincere chi arriva dai social a restare dentro il nostro sito. Ma è sbagliato affezionarsi troppo all’home page. E poi stiamo cercando di migliorare i nostri correlati…». Fermati: ma quando usi questi termini, quanti dei tuoi colleghi ti capiscono? «Quelli della carta? Nessuno». E a te chi te l’ha fatto fare di lasciare il giornalismo di inchiesta e di buttarti sull’online? «Perché ho pensato che per uno come me, arrivato a 50 anni dopo aver scritto articoli e fatto scoop su qualsiasi argomento, fosse interessante confrontarsi con un ambiente e una squadra di persone più giovani. Per me è stato un investimento professionale. E poi ho sempre pensato che uno dei doveri del giornalista fosse quello di raggiungere il maggior numero di lettori possibile. Ed è indubbio che in questo modo possa farlo». Come ti aggiorni? «Parlo con i miei sviluppatori e collaboratori, sono loro che mi spiegano e se non capisco continuo a chiedere: spiegatemi. L’approccio è lo stesso del giornalismo investigativo: se ti devi occupare di una cosa e non ne sai niente, studi, leggi, chiedi, ti informi e vai avanti». Se La Stampa o un altro big ti chiamasse per dirigere la parte digitale, tu ci andresti? «Al Fatto la cosa impagabile è la libertà, però è ovvio che quando il sito avrà raggiunto i risultati a cui mi sono prefissato di arrivare, chi cavolo ne sa cosa potrebbe succedere, mai dire mai nella vita».

@moreneria

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James Ellroy

Lo leggi e ti senti loro.
Vedi come loro. Parli come loro. Pensi come pensano loro.
Dudley Smith, malvagio poliziotto irlandese strafatto di benzedrina.
Bill Parker, sempre più magro, con i vestiti che gli penzolano addosso.
Katherine Kay Lake, la puttana più furba del bordello America.
Hideo Ashida, il chimico forense giappo e criptogay.
Prendono forma nella testa di James Ellroy, il più grande romanziere contemporaneo.
Chiedetemi il perché, chiedetevi il perché, sia il più grande.

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Foto Ray Banhoff

Al Circolo dei lettori di Torino presenta Perfidia, Einaudi, il suo ultimo libro: 23 giorni, 900 pagine. Corruzione, opportunità, fatalità, i tre elementi intorno ai quali si muovono i personaggi. Nessuno dorme, tutti deperiscono, scopano, lottano, nessuno si salva, nessuno è innocente. Puro stile Ellroy. Perfidia è il primo di quattro romanzi, che saranno i prequel degli altri che ha già pubblicato. Alla fine di tutto avrà scritto 11 opere che racconteranno la controstoria americana dal 1941 agli anni Settanta, il dietro le quinte, il lato B.
Ovvero: la storia americana vista dal buco del culo degli uomini che si muovono sotto e per conto dei più potenti JFK, Roosevelt, John Edgar Hoover, storico capo dell’FBI.
Ovvero: la storia americana vista dagli scavatori di fango, come li chiama lui.
Ovvero: la storia che ci appartiene, quella contemporanea, creata negli (e manipolata dagli) Stati Uniti. La storia dell’occidente. La nostra.

È chiaro? Qui non si tratta di definirlo autore di noir o di gialli. Si tratta di capire che un’opera così maestosa non ha eguali. James Ellroy. Il più grande romanziere contemporaneo. Epico, titanico, gigantesco.
Chiedetemi il perché, chiedetevi il perché. Eccovi serviti.

A Torino batte il microfono sulle mani, ringhia le parole. Non è in forma, a fine presentazione cerca un antibiotico. Poi si mette il cappello e va via. Da lontano mi indica e fa la faccia cattiva. Qualche ora prima lo avevo intervistato all’hotel Stea, centro di Torino.

[pullquote]Alla fine di tutto Ellroy avrà scritto undici opere che racconteranno la controstoria americana dal 1941 agli anni Settanta. In letteratura non ci sono eguali. Epico, titanico, gigantesco[/pullquote]

PARTE 1. QUALCHE ORA PRIMA James Ellroy è seduto su un divano della Sala Vittorio Emanuele, ha una camicia meravigliosa a maniche corte, i baffetti bianchi, davanti a lui ci sono tre bicchieri di acqua calda con miele e limone. «A tutti capita un raffreddore, adesso anche voi» grugnisce. Faccio outing. Gli dico: «Per me sei una leggenda, ho letto L.A. Confidential, American Tabloid, I miei luoghi oscuri, Sei pezzi da mille, Black Dahlia, Caccia alle donne, Il sangue è randagio e altri. E dentro, quasi sempre gli stessi personaggi, gli stessi nomi, gli stessi posti. Ti muovi per trilogie e tetralogie. Fai paura». Lui ascolta il mio pippone smascellando, si stravacca sul divano. E grugnisce ancora: «God bless you, GOD BLESS YOU». Cominciamo.

L’inciso all’inizio di Perfidia è una citazione della Bibbia, i Proverbi: «Non invidiare l’uomo violento e non imitare affatto la sua condotta».
«Right».
Che rapporto hai con Dio?
«Sono un cristiano, un cristiano protestante, ho letto la Bibbia molte volte, ritorno spesso sul Nuovo Testamento, i Sonetti, L’Apocalisse, vado in Chiesa, parlo sempre con Dio, that’s the story».
Anche il tuo stile di scrittura è biblico: zero retorica, zero rifiniture, soggetto verbo complemento. Sostanza.
«It’s huge, ye, thank you». Tira su col naso.
Dove compri le tue camicie?
Sorride. «Tommy, Bahamas».
La prima parola del libro è Reminiscenza: importantissima, autorevole, piena. Quanto tempo ci hai messo a sceglierla?
«Il prologo l’ho scritto alla fine. Reminiscenza l’ho scritta in italiano ma non perché l’ho voluto io, il riferimento diretto è a una sonata di Nikolai Medtner, compositore russo. È Kay Lake che parla, da anziana 95enne rivive l’avventura più grande della sua vita, è lei la voce narrante morale di questo libro e pure dei prossimi. È l’unica che rimane viva alla fine di questa ecatombe. Kay Lake è il mio personaggio preferito, se io fossi nato donna nel 1920 in South Dakota sarei stato lei, è sveglia, coraggiosa, molto più furba di tutti noi messi insieme, spiritosa, audace, piena di illusioni, delusioni, e con un’inclinazione marcata verso lo sperpero, anche sessuale. Incarna la grinta, l’intelligenza, il fuoco delle donne americane della seconda guerra mondiale».

Foto Ray Banhoff

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[pullquote]Burroughs? Segaiolo. Cèline? Segaiolo. Dostoevskij? L’Ellroy russo. Don Winslow? Good guy. Pynchon? Fuck Pynchon[/pullquote]

Oggi si direbbe che Perfidia è potente come una serie tv: ti piacciono le serie, le guardi?
«No, non le guardo. E Perfidia è soltanto un grosso romanzo».
Anacronistico, fuori moda. Bisogna mettersi lì e concentrarsi, per leggerlo. Con i tuoi romanzi sembri dire: io, non sono uno di quei romanzetti che trovate in libreria adesso, io sono James Fucking Ellroy, portate rispetto.
«Sì, per leggere Ellroy devi pensare, ti devi prendere in mano il libro, metterti a sedere e leggere quelle parole».
Tu cosa leggi?
«Nothing, niante, niets, nuht»
Ti faccio un nome e me lo commenti: William S. Burroughs.
«Malo». Fa segno di farsi una sega. «Jerk off!»
Cèline.
«Malo, Jerk off».
Dostoevskij.
Beve un sorso di acqua e miele, poi succhia una fetta di limone. «Ah, The Man, non l’ho mai letto ma è l’Ellroy russo».
Don Winslow.
«Good guy»
Proust.
«Mai letto».
Ma cos’è che hai letto?
«Dann Macdonald, gialli per bambini, due romanzi della mia ex moglie Ellen. Ah, e poi Don De Lillo».
Pynchon.
«Mai letto Pynchon, fuck Pynchon».
Bret Easton Ellis.
«Fuck Bret Easton Ellis».
Nel 2016 ci saranno le elezioni presidenziali americane. Voterai Repubblicani?
«Non ho nessun commento da fare non solo sulla politica ma su tutta la cultura americana di oggi».
Sei favorevole ai matrimoni gay?
«Stop right here. No. Non ho opinioni su alcun evento mai prodotto dopo il dicembre 1941».
Quale personaggio storico avresti voluto essere?
«Beethoven. Ascolto solo musica classica e ho tre suoi busti in casa».
Hai anche una Porsche.
Scandisce bene. «Ca-rre-ra 4-S, ca-brio-leeee-t. È bianca. È una stracazzo di macchinona, è bella e va molto veloce, ha il cambio automatico».
Come le Fiat.
«Fuck Fiat, malo, malo! Cattavo!».
Il tuo posto preferito a L.A. è un ristorante: quale?
Tossisce. Tira su col naso. «Il Pacific Dining Car, mi è comodo».
Sei sposato?
«Well, brother, sto con Ellen, la mia seconda ex moglie, siamo stati sposati 14 anni, poi abbiamo divorziato, adesso stiamo di nuovo insieme».
Nei tuoi libri si parla tantissimo di masturbazioni, mentali e fisiche. Tu ti masturbi?
Alza le braccia, agita le mani. «No brother, listen: masturbazione, come ze dize, appartiene ai miei luoghi oscuri».

[pullquote]Mi sveglio alle tre del mattino, scrivo per due ore e mezzo, mangio qualcosa, torno a dormire un paio d’ore e alla fine della giornata ho scritto 9 ore[/pullquote]

PARTE 2. SUPERBIA Nel 1958 Geneve, la madre di James Ellroy, viene trovata morta in un campo di El Monte, Los Angeles. James Ellroy ha 10 anni. Ti sei fatta fottere in un normalissimo sabato sera, scriverà proprio ne I miei luoghi oscuri. A 17 perde pure il padre. Alcol, piccoli furti, droga, carcere, lettura di romanzi gialli, infine la scrittura. Solo la scrittura. Della morte della madre ne parlerà in diversi romanzi, proiettando le sue ossessioni soprattutto in Black Dahlia, il romanzo che in America gli ha dato la notorietà. Quando sono andato a Los Angeles sono stato proprio là: El Monte, nel parcheggio dove è stata ritrovata la macchina della madre, in Marple Arch, la stampa dove è cresciuto. Ho fotografato quei posti. Ho stampato quelle fotografie. Gliele faccio vedere, gli chiedo di firmarle. Lui disegna un cane con un cazzo lunghissimo (in fondo, nella gallery).
Chi è?
«Banko, il mio bull terrier»
È la persona a cui vuoi più bene?
«No, quella è Ellen».
Come si svolge la tua giornata?
«Mi sveglio alle tre del mattino, scrivo per due ore e mezzo, mangio qualcosa, torno a dormire un paio d’ore e alla fine della giornata ho scritto 9 ore. Tutto a mano, da solo, assumo qualcuno soltanto per dattilografare e per dare un ordine ai miei appunti e alle ricerche»
Quali dei sette peccati capitali ti dà più fastidio?
«Superbia».
Perché?
«Perché fa sì che io viva isolato».
Quante persone vedi al giorno?
Unisce indice e pollice della mano destra. Dice: «Ziiiro».
Telefonate?
«Dieci».
Hai un iPhone?
«No, ho il fisso, niente cellulare».
Ti manca un figlio?
«No».
Come fai a saperlo?
«Se mi mancasse te lo direi, se provassi qualche rimpianto te lo direi, mi conosco piuttosto bene».

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Foto Ray Banhoff

PARTE 3. L’ASCENSORE Anni fa, a Milano, ho assistito a questa scena: Enrico Ghezzi presentava un libro di James Ellroy. Faceva domande molto lunghe, Elroy fingeva di addormentarsi sulla sedia, poi rispondeva a monosillabi. Fu veramente imbarazzante. Poi si alzò per leggere alcuni pezzi, si mise davanti al leggio, divaricò le gambe, buttò via il cappello, e ogni pagina che leggeva la strappava e buttava via. Uno spettacolo.
Cosa ti era preso?
«Mi ero appena messo con Joan, abitavamo insieme a San Francisco, e non riuscivo a smettere di pensare a lei, l’unica cosa a cui pensavo era tornare da lei e invece dovevo stare lì a sentire quei monologhi»…

Nella sala entra una troupe televisiva, il nostro turno è finito. Chiedo: posso farmi una foto con te? «Yeah sure». Posso abbracciarti? «Yeah, God bless you brother». Ci abbracciamo, ci tiriamo pacche sulle spalle, penso di smollargli un bacio sulla guancia come se fosse mio figlio, sto per farlo, ma non lo faccio, forse è troppo, forse sì. Lui Firma pure la mia copia di Perfidia e poi dice: «E ora vai dritto a casa, mi raccomando».

[pullquote]Guido una Carrera 4S, cabrioleeeet, bianca. È una stracazzo di macchinona, è bella e va molto veloce[/pullquote]

Quando sono fuori mi rendo conto che mi sono dimenticato due domande. Due, cazzo. Ma lui non è proprio quel tipo di persona che ti mette a tuo agio, risponde poco e controvoglia, veloce, lapidario, come il suo stile. «Tutto quello che mi interessa dire» sembra che ti dica «è qui nei miei libri, fanculo il resto».

Però io e Banhoff aspettiamo fuori dalla sala, dopo mezzora esce. Ha la giacca in spalla.
Mi sono dimenticato due domande, gli dico. Lui fa segno di sì, falle pure.
Come vorresti morire?
Elroy chiama l’ascensore. Risponde: «Voglio morire a 180 anni nel mio letto».
E sulla tomba cosa ci scriviamo?
L’ascensore si apre, Ellroy entra. Risponde: «He was a hell motherfucker man».
L’ascensore sta per chiudersi. Ellroy mi indica e fa la faccia cattiva.
L’ascensore si chiude.
James Cazzo Duro Ellroy. James Fottuto Ellroy. James Il Gran Cerimoniere Ellroy. Nessun uomo dovrebbe essere così letale quando scrive. Nessun uomo dovrebbe essere così attraente quando scrive. Nessun uomo dovrebbe essere così abile e disinvolto. James Ellroy. Il più grande romanziere contemporaneo. Adiòs.

@moreneria

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Come nasce un’intervista a James Ellroy

Attenzione. quello che state per leggere è un REPORT. Usiamo scriverli con il cellulare e gli errori grammaticali dettati dal t9 e dalla nostra pigrizia li lasciamo tutti dentro. Non vi scandalizzate, disimparate ciò che sapete. Questi pezzi vanno letti così come nascono.

Attenzione 2: questo pezzo è LUNGO. 

Milano-Torino cosa saranno? Ottanta chilometri? Un’oretta di treno, c’è anche credo il regionale. Invece noi di WNR con che ci andiamo? Con Bla Bla Kazzo Car. Organizzazione viaggio: PISTOH! Pisto Moreno ovvero la variabile assurda dell’universo organizzativo. Pisto Moreno ovvero uno di cui non posso nemmeno contare le telefonate in cui rispondo e succede «oh… ti volevo di…» «…» «cazzo… non me lo ricordo» e poi ti richiama dopo e non si ricorda nemmeno dopo. Ora Moreno è scimmiato con Bla Bla Car, ci andrebbe anche all’Esselunga se potesse, quindi niente treno ma Milano-Torino in auto. Il treno non lo ha considerato.

Il team è Pisto e Banhoff. Pisbanh. Motivo del viaggio: andiamo a intervistare James Ellroy a Torino. Pheeeega se siamo fighi. Io gli faccio addirittura le foto. Io! Le foto… le doveva fare Toni Thorimbert ma quando ho saputo che Ellroy non voleva foto, non voleva video, non voleva nulla, ho pensato che avremmo fatto una figuraccia a portarlo li per mezz’ora. Cioè non muovi Toni (col suo scrittore preferito) per fargli fare forse le foto. Quindi tocca a me, che i ritratti… non li faccio. L’intervista (CHE LEGGERETE DOMANI) l’ho ottenuta io con una magia.

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Prima della partenza. Comasina. Pisto con motorino significativo alle spalle.

Cari scolaretti: come si ottiene un’intervista così?

Tattica. Metodologia: Chiamo Einaudi per paginone di Ellroy su Riders. Sento le farfalline quando faccio ste cose da giornalista. Quando chiamo quei subordinati degli uffici stampa. Non ti rispondono mai. Oppure sono sempre così consenzienti, sempre così servizievoli. Se gli chiedi un the potrebbero pure ingegnarsi per portartelo. È un po’ uno di quei lavori che si dovrebbe imparare alla scuola alberghiera. Però quelli di Einaudi sono tosti. Va detto. Non è ass licking questo eh, si tratta di fatti. Einaudi dice, Einaudi fa, sarà che sono di Torino, che l’Avvocato era l’avvocato, che i piemontesi… comunque sia son seri. Particolare: Un team di ragazze, belle ragazze, una l’ho anche puntata ma mi ha seminato in zero due.

[pullquote]Comunque non abbiamo i soldi perché noi stiamo a milano e a milano si va a giro SOLO COL BANCOMAT. Chi non sta a Milano non lo capisce[/pullquote]

e Gnente al tel con uff stampa chiedo roba noiosa tipo cartella stampa a bla bla vari fino che sento dall’altra parte della cornetta: Ellroy è qui in tour stampa. Abbasso la voce, cambio tono, sono in ufficio, gli insetti colleghi potrebero sentire. Hai detto press tour? Io sono cofondatore di WNR… bla bla bla… penso ci siano gli estremi per… bla… dammi un fisso!
Come scusa?
dammi un fisso! cazzo non posso parlare da questo numero. FISSO! Ti richiamo subito.
Tempi accellerati, adrenalina, lei si si ok eccolo… Tutto a voce sommessa, tutto in imperativo categorico. E ok cinque min dopo parlo al telefono con una voce marpionica dall’altra parte della cornetta e me la lumo a dovere. Tono serissimo, oggi mi sono messo il profumo e mi son fatto i capelli da una decina di giorni. Ormai sono magro… insomma ci do dentro. “non voglio parlare di fronte ai colleghi”

come è ellroyana questa cosa mmmm

si si si.

30 marzo ore 15.30 torino mezz’ra con lui che fa presentazione al circolo dei lettori. Moreno è al settimo cielo, Ellroy è il suo mito da podio assieme a Burroughs e Bukowski. Schiuma paroline freshe e gongola. Mi dice solo: come ci godo! Non lo contengo.

Quindi si sbatte anche lui. Organizza torino, la spedizione.

Pisto chiama beatrice che dirige il circolo dei lettori. La rivista preferita di Beatrice è proprio Riders quidni Beatrice si sbatte per trovarci pure l’albergo. Fatto! Ecco un quattro stelle tuuuuuutto Pisbanh. Paga il circolo, quindi la regione, quindi il pd, quindi lo stato, quindi i miei colleghi con la forfora sottopagati. È l’Italia bellezza!
Non te lo insegnano al master di giornalismo eh? Non te lo insegnano che la bistecchina la devi coce su du lati! Hai presente le email e il «ti mando una imeiiiiiiii» Ecco.. sai cosa farci ora con la tua email.

E ora eccoci in macchina per Torino. Uno dei viaggi più brutti e pericolosi della mia vita. Lo racconto perché è burroughsiano. È assurdo. È scabroso.

Il viaggio stampa

Appuntamento alla Comasina, nel pieno del degrado urbano. La macchina la guida uno che non penso esistesse veramente. Era un robo che veniva da un warmhole dal futuro di sicuro. Un essere spiritico, un’allegoria di noi stessi nel futuro. Si chiama forse mario, o marco, o manzo. Non lo sappiamo ancora. È identico a Ellroy, ma microsopico, coi piedi torti, penso sia mezzo scemo. Puzza, è osceno si muove come un lombrico viscido coperto di plancenta aliena. Iiiii iiiiii lame su ghisa, stridio di ossa e denti. La macchina mi dice moreno che è una renault scenic, a me pare un furgone. Trattasi di Una cazzo di scassona blu viola cobalto del 1990. enorme. Tutta ammaccata, tutta piena dimmerda. Gli oggetti ci entrano dentro, varcandola diventano subito oggettimmerda. Si insabbiano tipo che ne so. Briciole ovunque, resti di unto, tutto abbriccato, tutto tenuto con lo scotch, tutto incollato. Carica batterie non originali, un ipad con cover rosa appiccicato al paraberezza. Cartoni della pizza aperti, caccole e peli di cazzo. Mani di mario nelle palle e poi stretta di mano con noi all’arrivo, infatti a pelle gli ho messo il pugnetto e lui non ha capito.

È il mondo di mauro. Un mondodimmerda. E la cosa più brutta? Mario guida così male, ma così male che non ho mai visto nessuno guidare così male. Nemmeno la mi cugina quando imparava nel parcheggio dell’ipercoop. E nella vita che fa? vende veicoli. Almeno è questo che mi trasmette ma non riuscivo nemmeno a fissarlo per quanto lo odiavo. Le auto dietro suonavano il clacson e lui faceva finta di nulla. Ha bucato anche la sbarra dell’autostrada, si è fermato un metro dopo. Un casino. Poi non arrivava a prende la ricevuta. Non sapeva fare un cazzo. Era il disagio incarnato. Faceva domande alle quali poi non ascoltava le risposte. E me lo sono puppato tutto io. Quella merda di pisto che è un giornalista sgamato si mette sul sedile dietro subito e mi serve il pacco a me. Stai te davanti con androide mario. Quando mario parla non si capisce un cazzo. Squirla, ciurla, sluma tronchetti di frasi sconnessi. Giuro che non si capisce un cazzo. Mi viene la risata nervosa, me ne fotto rido, guardo moreno che ride soffocando. All’autogrill – sbiancato – mi fa: ho paura per la nostra incolumità. Ora mi devo sorbire anche lui in para. Io sto pensando solo alle foto. Ma perché mi son messo in testa difare le foto? È troppo per me Ellroy… è troppo. Meno male che Mario/Marco è mezzo tonto e la maggior parte del tempo sta zitto. Dopo un ora e venti siamo a Novara. Abbiamo fatto benza, mangiato la pizza, gonfiato una gomma, fatto inversione a u nel benzinaio dell’autogrill e provato a chiedere a androide mario di lasciarci a novara in stazione. Niente. Odio moreno lo odio perchè dorme.

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Mario, l’autista pericoloso.

Comunque non abbiamo i soldi perché noi stiamo a milano e a milano si va a giro SOLO COL BANCOMAT. Chi non sta a Milano non lo capisce, qui se prelevi prelevi che ne so 20. di più è quasi immorale. Moreno si narra che ci abbia pagato cappuccio e caffè per protesta contro un barista. Mario non capisce continua a chiederci dei contanti continuiamo a dirgli che deve portarci a fare bancomat.

[pullquote]Moreno è in estasi. Ellroy Sorride a trenta denti quando lo aduliamo, poi arrivano gli autografi e lui e moreno si abbracciano [/pullquote]

Arriviamo a torino, mario ellroyino del caz ci lascia all’inizio della città. Non lo paghiamo, è lo stesso. Ci ha accompagnati li, poi si è dissolto è tornato nel futuro. Prensiamo senza biglietto un tram per venti fermate. Arriviamo al quattro stelle alle 2. ci siamo già stati qui. Sempre circololettori sempre beatrice amico nostro. In un’occasione in cui ubriachi andammo in reception e moreno si fece amico Alberto, il pinguino nella hall. “ma com’è qui… la situazione… eh? (movendo circolarmente la mano e facendo boccuccia) Capito…? Donne…” “ahhh certo capisco… si c’è un night club exlusive di la” . Si bona, il night, non ci s’ha i soldi per piange. Stacco. siamo sbronzi sul letto e moreno continuava a chiamare Alberto per chiedergli prima una sigaretta, poi un accendino, poi Alberto (conosciuto otto minuti prima nella hall del 4 stelle turno di notte) non ce l’aveva allora moreno gli chiedeva se poteva farselo prestare da delle giapponesi che aveva visto nella hall. Alberto? Pronto? Pronto? Ha riattaccato.

Questo è GANZO JOURNALISM. Tuuuuuuutto pagato!

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Eccolo!

L’intervista

Torniamo a ellroy. Alle 15.30 Mangiamo e arriviamo. Un mega cinquye stelle serio. Ci siamo noi e la rai tipo,. Cazzo nessun altro blog lo sta intervistando, moreno è gasato come un ragazzino. Ellroy è semisdraiato su un divano di pelle nera e una pancia mega avvolta stretta in una camiciona hawaiana. Smascella tutti i suoi tic, dinoccola il collo come un piccione. È raffreddato e ancora in jet leg, la mattina dopo parte per la Germania, Scatarra in un fazzolettino bianco e davanti ha tre bicchierini. Acqua, miele, acqua. Li beve in seguenza tipo tre shottini. La stanza è piena di lui, tutto è elettrostatico, siamo tutti in adre, zigzaghiamo da una parte all’altra come palline di flipper tutti tesi e entusiasti. All’esame di maturità ero più tranquillo. Le traduttrici e tutto lo staff einaudi sono gentilissimi. Lui anche se parlasse armeno credo che si farebbe capire. ha una voce che è un tuono, la modula con una consapevolezza che nemmeno un attore. Sa dare peso a ogni sfumatura,a  ogni afggettivo, una mimica facciale pazzesca lo aiuta e poi ti Incalza con le sue espressioni americane, sdeng! sdeng! Ogni parola è un gancio, ogni risposta è definitiva, ogni sguardo fa parte di qualcosa di più grande. Ellroy è un pezzo della sua opera, un proseguimenti se lo hai letto e lo ascolti parlare capisci tutto. è l’unico che ha tante palle per narrare se stesso e le storie di cui parla. Non gli stiamo leccando il culo, ci proviamo a inchiodarlo, ma il tizio è troppo più sgamato di noi. Siamo cacchette! siamo cacchette (cit). Moreno combatte con la guardia alta, ogni tanto lo impressiona. non siamo quelle pappe molli della stampa italiana… noi i tuoi libri li abbiamo letti… e sono malloppi da 800 pagine l’uno, quindi possiamo dire di essere sicuramente tra i pochi che hanno studiato la tua opera. noi ci siamo dentro fino al collo. e allora ci rispetta di più. Mi guarda e mi dice. Si le foto ma NON MI ALZO DI QUI. Intendendo per qui il divano. Ok capo, sei tu il capo.

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Sala gremita per il Kapo

Intervista (CHE LEGGERETE DOMANI, L’AVETE CAPITO?) procede duramente. Moreno gli chiede di masturbazione, sesso, morte, amore. Lui non vuole rispondere a niente. Ne ho parlato ne I miei luoghi Oscuri… non mi frega… Nn vuole scoprirsi, ma è gentile, è diretto. Pynchon? Fanculo Pynchon! Burroughs? Segaiolo. Proust? Segaiolo! Lui risponde cosi. Moreno è in estasi. Io fsfoggio una calma insterica da ambrogio quando guida la macchina alla contessa che vuole il cioccolatino, Ellroy Sorride a rtrenta denti quando lo aduliamo, poi arrivano gli autografi e lui e moreno si abbracciano. Invece dell’autografo gli disegna un cane con il cazzo enorme e fa solo BANKO! BANKO! MY DOG. E RINGHIA e a noi non ce ne frega quasi più niente delle domande, delle risposte, ce ne frega solo di essere li davanti a uno dei più grandi di sempre. La sera lo seguiamo fino allo sfinimento, risponde alle domande in pubblico e firma cento autografi. In sala, pochissimi lo hanno letto, pochissimi sanno chi sono Ward Littel o Kemper Boyd… Pochissimi. Ma tutti sono qui come attratti dal magnete. Ellroy è settario. Ellroy è il kapo della setta. Tutti abbiamo bisogno di eroi! E lui ogni tanto ci guarda, ogni tanto ci fa il gesto del pugno e si bacia il polso. e noi zitti come dei soldatini a cui il caporalmaggiore da il premietto. Noi li lontani da casa, senza soldi, senza un cazzo, solo con il nostro animo groupie letterario, ci sentiamo parte di qualcosa.

Ray Banhoff

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