Archivi del mese: Luglio 2014

New York

Atterro a Newark in New Jersey. La guerra con New York la si combatte sul confine. La guerra con New York la si combatte sul confine a colpi di pastrami begal a chi la mostarda ce l’ha più buona. Pare che in New Jersey sia tutto più grande. Atterro a Newark in New Jersey mentre ascolto Lucio Dalla.
A New York sono le sirene a farla da padrone. Le sirene come bestie antiche, con le luci e quella musica jazz che ti aspetti ad ogni angolo. Mi chiedo cosa sia quel vapore che sale dai tombini. Me lo chiedo sempre. Ogni volta che ci torno. Non vorrei rispondermi mai.  A New York stasera ho cercato un rooftop. Perché sono in jet lag e il gin tonic ci mette del suo. L’aria è calda e ha un odore tutto suo. La gente pulsa come delle cazzo di supernove sparate nella silhouette della skyline della città sull’hudson. Saranno le luci, ma stasera siamo tutti comete. Comete galassie e costellazioni. Energia universale, roba da antimateria. Animali stellari in collasso perenne. Vedo le pulsazioni. Sento le pulsazioni. Bevo. La tizia che mi porta il gin tonic è una gran figa. Sarà per quello che bevo. O sarà che è figa perché ho bevuto. Però non ho più tempo per pensare e lascio che tutta questa roba mi coli addosso. Mi sgoccioli dalle viscere perché mi ammazza tutta questa vita. È tanta. Tanta e mai abbastanza. Non potrò mai perdonarmi il fatto di non riuscire a fermarmi. Mai. Però intanto bevo. Perché stasera i gin tonic sono tutti offerti.

[pullquote]Quando il sole risorge parti di nuovo da zero. New York. È la terza sigaretta di fila quella che mi sto fumando. In culo al romanticismo[/pullquote]

A New York non mi innamoro mai. È solo sesso. Sogni strappati in una camera di hotel a Lexinghton Ave. Il sangue mi scoppia il cervello. Fumo in fila alla fermata dei taxi. Non ne prenderò neanche uno. Lavoro di gambe. Le mie e quelle di tutte quelle maledette yankee che vorrei mi scaldassero il letto. Solo per una notte, non di più. Nel mio hotel vendono preservativi e vibratori. In culo il romanticismo. Non oggi. Non stanotte. Voglio solo sognare quel sesso che le luci di troppe vite ti guardano dalla finestra e che sai che le lenzuola non le cambierai tu. Perché quando il sole risorge parti di nuovo da zero. New York. È la terza sigaretta di fila quella che mi sto fumando. In culo al romanticismo.

Si potrebbe dire che all’alba la città si risveglia perché l’aria è sorniona alle 5.07. Si potrebbe dire che la città si risveglia se se ne andasse mai a dormire. Ma così non è. E allora ti chiedi cosa sia quella bolla che ti tira su a mezz’aria mentre il sole sale. A quest’ora non posso fare altro che scendere dal letto e cercare un caffè. Cercare un caffè e fumare una sigaretta. Ho un pezzo in testa di quelli che ammutoliscono i pensieri e così mi ritrovo a guardare per la prima volta la città dall’alto al basso. I palazzi della terza si inchinano mentre passo, oggi il dio sono io. La temperatura sale lentamente a 80 fahrenheit, meno 28 diviso 2 uguale celsius. Me l’ha insegnato un’inglese a cui ultimamente sto pensando troppo.

Sono estasiato. Eccitato. Bevo un malbec al ristorante del W hotel. Ho chiesto un tavolo per uno. Me ne hanno dato uno per 6. Mi porto dietro una corazzata di altri me. Il cibo è fantastico e chiama altro vino. Intorno nessuno vede i miei tatuaggi, né guarda cosa e come mangio. Quello che vedono è un uomo che ha bisogno di un altro malbec e un altro ancora perché non ci si riesce a fermare. Non si può. E i bicchieri arrivano che dopo il terzo non me lo chiedono neanche più. Voglio stare solo. Stanotte è la mia notte. La mia e di quel vino rosso di annata che lentamente mi diluisce il sangue nelle vene. Inizio a giocare con una bionda seduta all’altro lato della sala.  Inizio a giocare con gli occhi perché la spinta del malbec la si comincia a sentire anche nel bacino. Le faccio capire che la amo. Le faccio capire che non me ne fotte un cazzo. Quando si alza mi guarda ed esce dalla sala e io esco a fumare. Parliamo. Poi torno a pensare a quell’inglese che mi ha insegnato la conversione celsius fahrenheit e mi rendo conto che in realtà non ho mai smesso. Al prossimo bicchiere brinderò a qualcosa di anormale. New York, alla tua. Vai a farti fottere. Le mie scarpe me le guardano tutti. Il paesano ha fatto il botto.

[pullquote]Bevo un malbec al ristorante del W. Con gli occhi inizio a giocare con una bionda seduta all’altro lato della sala. Le faccio capire che la amo. Le faccio capire che non me ne fotte un cazzo[/pullquote]

A questi cazzo di americani proprio non riesce di essere figli di troia come a noi europei. Per loro è solo metterti in bocca il cazzo più grosso, nessun gioco. Non c è strategia. C’é da dire che le steakhouse portano piatti di una certa importanza. Però mi fermo li e troppe volte non basta. Sono uno a cui l’eleganza piace. L’estetica come parte integrante di ogni personaggio che mette piede al mondo. Fuori dallo Sparks sulla quarantaseiesima uno mi dice che in america non si fuma. Gli rispondo che sto fumando su quel pezzo di territorio europeo che mi porto sempre addosso. Rientro per bere. Esco di nuovo a fumare.

A New York il rispetto lo si lega al collo insieme alla cravatta. La dignità della razza umana è un fattore aritmetico direttamente proporzionale alle variabili xyz; nell’ordine abito, gemelli, 24 ore. Ringrazio che i tatuaggi mi spuntino dai polsini della camicia, ringrazio che si vedano in controluce attraverso le maniche. Non appartengo alla categoria. Non passo ore a studiare la postura perfetta da mantenere davanti al computer. Schiena dritta e spalle alte. Se mi siedo mi accascio se mi alzo è per andare a fumare. Amarmi o odiarmi, non ci sono alternative; lo faccio per coerenza. Amo il genere umano, quello decategorizzato. La roba che pulsa dietro gli occhi della gente che dio sa che cosa c’è dentro tutte quelle vite in collasso eterno.

[pullquote]Al prossimo bicchiere brinderò a qualcosa di anormale. New York, alla tua. Vai a farti fottere. Le mie scarpe me le guardano tutti. Il paesano ha fatto il botto[/pullquote]

Lascio New York per tornare a Newark. Partire. Tornare a casa. Tornare a Londra. Mi fumo due paglie con un vecchio di Buffalo che ha le lacrime agli occhi. Sarà l’età, o forse l’alcol, però inizia quando attacca a parlare del figlio. Alla terza sigaretta penso al mio di figlio e a me e a mio padre e mi sento schiacciato in un dislivello generazionale. Non sono altro che un cazzo di ponte tra due vite. Come quell’aereo che mi sta passando sopra la testa. Come quello che mi riporterà a casa. Sono tutto e niente. Non molto più di un passaggio necessario a che certe cose accadano. Così mentre penso mi lascio andare e dopo i controlli di sicurezza mi abbandono a qualche gin tonic mentre Tiger Woods fa un risultato scandaloso agli Open e ti rendi conto che forse anche la sua carriera è finita. Vado ancora di gin tonic. Più gin che tonic per favore.  Ma non perderò il volo. Devo tornare. Ho una vita da continuare e una da iniziare. Prima o poi. Nel frattempo una cosa l’ho capita. La guerra tra Jersey e New York a chi il pastrami bagel ce l’ha più buono la vince New York.

Giorgio Cremonesi

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Sardika, Bulgària

Sardika è una città invisibile. La vedi se ci vai, altrimenti non ne senti parlare. Una guida turistica non esiste, se provi a chiederla la biondina del centro commerciale ti guarda stranita come per dire: «Ma dove cazzo vai, sfigato». E ha ragione. Io Sardika non l’ho mica scelta, ci sono capitato. Il volo più low cost di tutti, poi un click Google Maps per controllare dove si trova esattamente. Chissà come l’avrebbe raccontata Italo Calvino nel suo Le città invisibili. Come Zemrude, Sardika prende forma a seconda dell’umore di chi la guarda. Con gli auricolari e musica a palla cammini fischiettando e la scopri “di sotto in su”. Il campanile e le cupole dorate della cattedrale Alexander Nevsky sono imponenti, impossibile non alzare lo sguardo e farsi trascinare al suo interno. Dentro rimani avvolto dall’imponente collezione di icone ortodosse e dipinti, all’ingresso tre uomini con il grembiule nero ti guardano storto mentre ripuliscono i porta candele e continuano a spazzare il pavimento. Le vetrine che racchiudono le icone sono prese d’assalto dalle labbra dei fedelissimi, le impronte dei baci sono dappertutto, i segni della croce si sprecano. In quanto a devozione fanno dieci a zero anche alle vecchiette che popolano le nostre chiese. Quando da una delle cinque navate parte un canto incomprensibile, i pochi turisti tirano fuori dalle tasche i telefonini e corrono a fotografare quanto accade. È l’inizio della cerimonia di un battesimo: al centro dell’altare i patriarchi ortodossi e la famiglia si stringono attorno a un bambino di cinque anni che, una volta denudato dai suoi cari per essere cosparso di acqua santa, sembra molto più preoccupato dei nostri sguardi indiscreti. C’è chi se ne sbatte e scatta foto, io abbozzo un segno della croce e vado via. Come dalla Zirma di Calvino, da Sardika torni a casa “con ricordi ben distinti”.

Sardika

[pullquote]Attraversi la strada e ti trovi nella location dell’editto bulgaro del 2002. Il tempo di un selfie e di un vaffanculo e ti ributti dentro Sardika[/pullquote]

I marciapiedi gialli, costruiti in occasione del matrimonio dello Zar bulgaro Ferdinando, ti guidano nel cuore di una città sospesa tra Europa e Russia, dove il passato è ancora più forte del presente e il futuro è appeso agli sprazzi d’occidente che iniziano a prendere forma: ti chiedi che cazzo ci faccia il Mac Donald attaccato ai minareti della moschea, ti capita di vedere una Ferrari parcheggiata nella via delle grandi firme, l’immenso poster della Cocacola che si affaccia su una delle principali piazze della città. Piccoli segnali di cambiamento in una città da lavori in corso. In Tsar Osvoboditel Boulevard le impalcature nascondono la chiesa russa di San Nicola. L’ingresso principale è chiuso, davanti una mendicante allunga il bicchiere e chiede anche solo un leva bulgaro indicandosi la pancia, io passo dritto come uno stronzo e inseguo due persone che stanno andando verso il retro della chiesetta. C’è una piccola porticina, una scaletta che porta dentro una piccola cripta invasa di candele e icone. Nell’atrio non ci stanno più di dieci persone, per respirare si deve entrare in una stanzetta accanto dove ci sono quattro tavoli e una ventina di signore che sono intente a scrivere su dei bigliettini bianchi ammucchiati al centro del tavolo. Non capisco, mi guardo intorno e alla fine mi decido a chiedere cosa sta accadendo. Una turista spagnola mi spiega che stanno scrivendo preghiere a San Nicola, la chiesa è dedicata al santo e dietro la stanzetta coi tavoli c’è una piccolissima navata con la tomba e le icone in suo onore. Le signore si sdraiano sulla tomba, la baciano, poi depositano i bigliettini in una cassetta di legno accanto al piccolo altare. «Chiedono un lavoro, serenità, salute, ma sono soprattutto le mujeres che fanno ste cose, non gli uomini», mi dice la signora spagnola. E probabilmente non è un caso se là dentro io e il marito della turista spagnola siamo gli unici maschi. Niente paura, io di preghiere da scrivere ne ho, e anche tante, e probabilmente un santo da solo non basterebbe. Prendo carta e penna e prego, San Nicola aiutami tu. Se ti spingi più in là, sempre sul marciapiede giallo, arrivi al centro del potere, quello politico. Davanti al palazzo presidenziale ci sono più camionette della polizia che turisti. Il cambio della guardia qui non è un’attrazione, due o tre persone che in quel momento attraversano la strada si fermano per la foto ricordo improvvisata. Niente più. Sarà colpa dei cartelli turistici scritti in cirillico se in pochi buttano l’occhio dentro la corte interna del palazzo, qui c’è la chiesa di San Giorgio: di epoca paleocristiana è considerata la costruzione più antica di Sardika. Il tour del potere si chiude nella deserta piazza dell’Assemblea Nazionale, attraversi la strada e ti trovi nella location dell’editto bulgaro del 2002. Il tempo di un selfie e di un vaffanculo e ti ributti dentro Sardika. Come Sofronia, Sardika “si compone di due mezze città” e forse anche di più. C’è quella “di pietra e di marmo” con la banca, i palazzi e tutto il resto. Nell’altra ci sono i parchi (tanti e ben curati), le vie del mercato, le bancarelle dove ti vendono le icone e mille altre cianfrusaglie, i senza tetto che dormono indisturbati nei parchi e sui marciapiedi, i cortei in strada contro i gay e quelli a favore dell’Ue, i ristoranti dove ti sazi con 10 euro. Nei giardini pubblici, davanti al teatro nazionale Ivan Vazov, al pomeriggio le panchine di legno si trasformano in scacchiere.

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[pullquote]Le panchine di legno si trasformano in scacchiere. E al signore che mi ha sfidato gli avrei pure dato retta. Fargli capire che sono incapace è dura, e alla fine mi salva Roberto Baggio[/pullquote]

Attorno a chi gioca capannelli di curiosi, ma c’è anche chi aspetta lo sfidante e invita i passanti a sedersi. Io non c’ho mai saputo giocare, altrimenti al signore che mi ha sfidato gli avrei pure dato retta. Fargli capire che non è per sgarbo ma solo perché sono incapace è dura, e alla fine mi salva Roberto Baggio. Qui dici Italia e ai vecchi del posto gli torna alla mente la semifinale del Mondiale del 1994, quello giocato negli Usa. In quell’Italia-Bulgaria (mica Costarica…) il codino magico spense i sogni della gente di Sardika già nel primo tempo, era l’Italia di Sacchi. Quel 2-1 se lo ricordano bene, la delusione di quella semifinale è molto più fresca delle recenti qualificazioni agli ultimi Mondiali. Gli azzurri hanno fatto fuori la Bulgaria, ma la doppietta di Osvaldo del 2012 al Vasil Levski non se la ricorda più nessuno. L’Italia del calcio, qui, è Roberto Baggio. A Sardika, come nella Zemrude di Calvino, “non puoi dire che un aspetto della città sia più vero dell’altro” e puoi dire come della capitale Eutropia che “il viaggiatore non vede una città ma molte”. Anche per questo è difficile parlare e raccontare la città invisibile. Per capire qualcosa (mica tutto) devi parlare con chi ci è nato, o con chi ci vive da anni. Alessandro è uno dei 33 sardi che risiedono a Sardika. Una storia che meriterebbe un libro, dalla Barbagia alla Bulgaria per amore e poi una vita di successo e soddisfazioni. Chi è sveglio e ci sa fare qui ha tanto spazio, chi pensa di arrivare a Sardika con niente e trovare l’eldorado è destinato a fare la fine della mendicante che ho trovato davanti alla chiesetta di San Nicola. Colpa di qualche servizio trasmesso nelle televisioni italiane che ha fatto credere ciò che non è. La paga media di un operaio non supera i 200 euro, se non conosci il bulgaro (per studiare la lingua ci vuole almeno un anno) nemmeno ti prendono, un affitto in un posto decente che non sia il cubo-incubo di cemento all’estrema periferia di Sardika non costa meno di 250 euro. Caro disoccupato italiano, se non hai almeno un piccolo capitale da investire stai a casa, che almeno là puoi trovare qualcuno a cui chiedere un aiuto. Che a credere alle balle si rischia di finire come il viaggiatore che arriva nella invisibile Irene di Calvino: “…a vederla standoci in mezzo sarebbe un’altra città; Irene è un nome di città lontano, e se ci si avvicina cambia. La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui s’arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso…”. Sardika è anche come Irene: racconti gli episodi, gli incontri, le sensazioni, ma la città – anche se ci sei dentro – rimane “invisibile” agli occhi del viaggiatore. Torni a casa con la voglia di tornarci e con la consapevolezza che se aspetti troppo il futuro avrà già nascosto la città che hai vissuto.

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Fabio Fogu

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Italian Cucadores

Signori, io immagino che le vostre orecchie siano intasate. E lo sono i vostri occhi e i vostri pensieri perché non riuscite a nutrirli con quasi niente di nuovo. Prendiamo per esempio la musica italiana… la musica italiana cosa è? Se sperate di capirlo ascoltando la radio o la televisione siete spacciati. Quella non è la musica italiana, quello è il prodotto dell’industria musicale italiana e non sono esattamente la stessa cosa. Nell’industria musicale lo scopo primario è vendere quindi per andare sul sicuro tende a fornire un prodotto che secondo i canoni del mercato è perfetto per il consumatore. Quindi c’è un motivo per il quale la musica pop italiana è brutta ed è che quel brutto per il canone dell’industria è un bello “ottimale”. Canzoni che parlano di lui e di lei, cuori infranti, melodramma becero, sentimenti che neanche a 12 anni, rime di Emma, gli acuti di Giuliano dei Negramaro… e così via, sono un prodotto dei nostri tempi, come le Hogan (odiatissime dagli amici hipster), le fiction di Canale 5 o che ne so negli anni 70 le auto erano rettangolari e tutte le case automobilistiche le producevano così, poi negli anni 90 qualcuno le ha stondate e giù tutte le Bmw erano bombate. Il mercato fa il prodotto, il consumatore non ha quasi scelta.  L’altoparlante che l’industria usa per lanciarci i suoi messaggi, lo indicò anche il pesissimo Goebbels, sono i media. Il nostro tour virtuale del processo industriale del prodotto dall’industria al consumatore si conclude nell’inferno dei media, al girone di radio, tv e riviste dove i disperati impiegati della stampa per riempire le pagine di quei poveri giornali, dedicano spazio agli “artisti”. Cazzo… i giornalisti musicali… Rolling Stone, il cimitero dell’amore. Quante volte l’avete sentita la canzone di Ligabue? La sapete tutta a memoria e non vi rendete conto del perché. Se solo ve lo avessero chiesto magari non l’avreste ascoltata, ma mica ve lo chiedono.  É come se vi avessero nutrito con l’imbuto.

Se cercate un briciolo di verità, se avete bisogno di una misera risposta siete messi come Neo in Matrix. Ne’ di più ne’ di meno. Ma ora apriamoci all’ottimismo…

COVER CD

Poi c’è la realtà, ed è bellissima. La realtà sono i gruppi dei tuoi amici, i locali vuoti dove ogni tanto qualcuno suona, i dischi di qualche etichetta di intrippati in totale rimessa economica che pubblica eroicamente e poi un mare di gente che i dischi nemmeno li pubblica ma li suona. Non li pubblicano perché non hanno gli strumenti, non hanno lo sbattimento di riuscirci, non gli interessa, non lo sanno fare… e non gli serve. Attenzione, non stiamo dicendo che l’underground sia un posto migliore, anzi spesso e volentieri è un ambiente ancora più bigotto del mainstream, dove dei privi di talento qualunque vivono la loro condizione di nicchia pensando che sono di nicchia perché non hanno i mezzi (soldi, visibilità, occasioni) e non perché sono scarsi ed è il caso dei gruppi che popolano il cartellone dei festival come il Miami o anche meno, della band calabrese infognata nel grunge. Ma per carità non vogliamo mica tagliargli le gambe. É solo che non ci possiamo riconoscere in quella roba. Con tutto lo sforzo del mondo non posso sentirmi rappresentato da Lo Stato Sociale o da Brunori. Per vedere la luce e brillare assieme ai nostri simili dobbiamo scendere ancora più giù all’ultimo gradino della sconosciutezza, nella palude dove il virus della fama su Facebook ancora non ha attecchito ed eccoci tra gli anonimi improbabili. Qui regna l’anarchia espressiva e i canoni estetici sono diversi, qui si può stonare, essere stupidi, non avere la parola “progetto” nel libretto del disco, non seguire i canoni, non registrare bene i suoni, non saper suonare etc… In questo arcipelago di disagiati ci sono dei veri e propri fari nella nebbia, dei personaggi che hanno dignità. Su WNR avete ascoltato Vittorio Rossi, e oggi vi presentiamo gli Italian Cucadores. Il loro comunicato stampa è così scemo che non si capisce nemmeno chi siano ma si parla di un duo di cui io conosco Francesco Roggero (musicista, megalomane, proprietario di una casa editrice online e frontman della trash band Da Rozzo Criù. L’altro tizio, che è quello che canta i pezzi, non so chi sia ma è bravo. Questo è un assaggino di cosa sono capaci di fare:

Italian Cucadores del duo Il culo di Mario (Black Vagina Records) è un disco che nasce dopo otto anni di prove e reticenze tra i due musicisti e credo che questa attesa sia una gran maturazione. I pezzi sono roba trash, demenziale, cantata stonata, priva di senso ma con sprazzi di totale bellezza. Certo a volte è troppo, ma si sopporta anche questo. Italia Milano Hamburger King è un pezzo da colonna sonora di Drive, Osvaldo un singolo un po’ scontato ma che ti entra in testa come che ne so Alza ste casse dei Da Rozzo, roba perfetta. Nel disco ci sono influenze di Beck, Skiantos, Depeche Mode, CCCP, Daniel Johnston, roba a caso della tv, sigle dei cartoni animati, musichette da pubblicità dello Xanax. Il tutto registrato con un iPad e pubblicato in cassetta (hipsterata che ha un po’ rotto i coglioni). Però è bello, dura 20 minuti e quando ti sei rotto, giusto in tempo, lui finisce. Io se dovessi spendere dei soldi per comprarlo lo comprerei.  Il video di Alito Brazil è geniale. Il protagonista è un performer e la protagonista la sua fidanzata, sudamericana che sogna di diventare una star della tv. Ecco spiegato quel “per la prima volta in Europa” che compare prima del nome Joy nel viseo. Hanno scritto che è in esclusiva europea per farle capire l’importanza che ha e le hanno dato 50 euro per dimostrare che era una situazione professionale. Cioè i soldi gli ha dati il protagonista al regista in modo che sembrasse che lui la pagasse ed è fantastico. È una storia d’amore sul serio. Questo è l’amore sul serio. Le foto di copertina sono prese da un rullino che era in una vecchia macchina comprata da uno dei due musicisti a un mercatino. Le tipe nessuno sa chi siano. Sono due vecchie in gita. Gli art director di una casa discografica non la farebbero mai una cosa del genere, loro fanno le cose fighe, tipo che ne so curano l’immagine di Emis Killa.

Ray Banhoff

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London Crawling!

L’unica vera regola del bus Crawling è abbandonare ogni regola dettata dal buon senso. Con questa musica i gabbiani in cielo sembrano animali mitologici. Il segreto è portarsi alla starvation fino a quando la vista della prossima fermata non ti fa venire l’acquolina in bocca; il segreto è non lasciarsi la scelta se prendere il prossimo bus o meno. È dovuto, altrimenti si è semplicemente fottuti. Poi ti si rompe l’accendino alla prima fermata e non sei propriamente in un posto in cui è semplice trovare da accendere. Pazienza, la prossima sigaretta sarà fantastica.

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[pullquote]Ho solo due mezzi oggi, gambe e bus. Ho solo due mezzi e nessun obiettivo[/pullquote]

Finisco sullo svincolo di una statale che rischi la vita per attraversare. Poi penso che non è poi molto diverso da quello che si fa tutti i giorni. In cucina, al lavoro, al supermercato. Il veleno è ovunque. Non ho ancora trovato un accendino. Annuso l’aria per captare odore di tabacco bruciato, ma non c’è nessuno intorno, solo cicche di sigaretta che mi prendono per il culo schiacciate nei solchi del marciapiede.

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[pullquote]Nel bus Crawling non c’è un ritorno. È un unico grande loop randomico intorno alla città[/pullquote]

Ho solo due mezzi oggi, gambe e bus. Ho solo due mezzi e nessun obiettivo. Mi domando cosa ci sia di diverso dagli altri giorni. Con questa musica certe architetture sono antiche.
Dell’accendino rotto me ne sono liberato in un bidone di fianco a un templio indù. Ho trovato un negozio gestito da indiani che sapeva di prosciutto e detersivo. La gente di qui che beve birra per strada a colazione non è abituata alla vista di uno come me. Adesso posso tornare a fumare e ho deciso di tenere qualche moneta in tasca. Potrebbe sempre tornarmi utile.

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Le strade di ritorno sono sempre più lunghe di quelle di andata. Ma nel bus Crawling non c’e un ritorno. È un unico grande loop randomico intorno alla città. Ogni strada è diversa da quella prima, non c’è destinazione. Dimentichi che le cose hanno un fine. È così che ti puoi permettere di continuare ad andare avanti. Qualche postmodernista ci dovrebbe scrivere un libro. Con questa musica certa gente profuma dell’aria del mattino.

Io nell’est europa non ci sono mai stato, ma mi sono sempre immaginato quelle città proprio come questo palazzo qui di fronte. Alla seconda fermata mi lascio affascinare da un venti piani divelto a metà. Spaccato come la terra nei milioni degli anni che ci portiamo sui libri di storia, spaccato come la vita delle persone. Una bianca e una nera si tengono per mano. È così che gli elementi cercano di riparare la fissione. Ho paura che l’accendino nuovo mi abbandoni per strada. Perché oggi tutto ha un senso.

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Un autobus riparte. Qualcuno si abbraccia forte, senza lasciarsi andare.
In certe zone i bus passano ogni venti minuti. In certe zone è meglio assumere l’aria della brutta persona, accendersi un sigaretta, perché intorno ci sono persone incazzate. Camouflage. Ma per quanto mi sforzi non ho l’aria di uno che deve combattere ogni giorno. Non vivo in queste torri di sogni tossici e malattie veneree. Una vecchia mi abbaia che se provo a fotografarla mi azzanna il collo con i pochi denti che le rimangono. La prima sigaretta finisce e il bus non arriva. Accendo una seconda. Con questa musica certe esperienze ti sembrano prive di significato. Si affiancano due su una corolla scassata. Arriva il bus e alzi la mano per fermarlo. L’autista non se li fa i cazzi suoi e ti devi togliere le cuffie per sentirti dire che la prossima fermata è il capolinea. Gli dico che non mi importa. Mi chiede dove stia andando. Da nessuna parte, ovunque. Non mi importa. Forse questa è la seconda regola del bus Crawling.

[pullquote]In certe zone è meglio assumere l’aria della brutta persona. Ma per quanto mi sforzi non ho l’aria di uno che deve combattere ogni giorno[/pullquote]

Un graffito mi indica la fermata K. C’è un tizio con la felpa con il cappuccio. Spunta la visiera piatta di un cappello degli yankees con l’adesivo d oro che luccica al sole. Sputa in terra e mi rivolge parola. Gli chiedo perché tiene in mano il torsolo di una mela. Lo butterà al prossimo bidone. Mi convinco che la gente è fondamentalmente non cattiva, sono gli sguardi impauriti a far incazzare la maggior parte del genere umano. Passa il 328 – Chelsea World’s End. La fine del mondo non mi fa poi così paura, ma il motivo per cui salgo è che l autista è una bionda che non ti aspetteresti di trovare alla guida di un bus diretto alla fine del mondo. È il sillogismo di una brutale estetica fuori luogo. Salgo e mi siedo. Alla fermata dopo cambio di autista. Ora si. Il senso si riconquista strada facendo. Con questa musica il sapore del l’asfalto cotto dal sole te lo senti in bocca. Le domande le ho lasciate a uno skate park in cui mi sono fumato un paio di sigarette.

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[pullquote]L’autista ti dice che la prossima fermata è il capolinea. Mi chiede dove stia andando. Non mi importa. Forse questa è la seconda regola del bus Crawling[/pullquote]

Se mi capitassero sotto mano gli album di foto ricordo dei turisti in cui casualmente compaio non mi stupirei di vedermi riflesso in una carrellata di facce disgustate. Un’espressione tutt’altro che empatica in mezzo a sorrisi ebeti imbambolati in uno stupore dozzinale. La meraviglia da mass market. I ricordi seriali da banco alimentare. Prodotti da frigo a lunga conservazione, perfetti sostituti in una dieta lipidica purché povera di sodio. Sullo sfondo di una di quelle immagini, quando la macchina scatta i tentativi di farsi immortalare a mezz’aria, si nasconde uno dei mercati di libri più intensi della città. Ma è ora di pranzo e con questa musica i McDonald sembrano più pieni del solito.

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Le monete che mi ero messo in tasca le ho usate per comprare un caffè, una banana e una bottiglietta d’acqua. Sapevo mi sarebbero servite. L’accendino nuovo sembra resistere. Dal finestrino del 148 vedo un uomo con due moncherini a posto delle braccia e una macchina fotografica al collo e mi ritrovo a domandarmi qualche come piuttosto che perché. Sono fiero della nuova prospettiva acquisita. Nel bus Crawling lasci da parte il pensiero critico a favore del senso pratico. In fin dei conti non si tratta d’altro che di puro istinto di sopravvivenza. Con questa musica mi sembra di avere intorno solo coppie e padri di famiglia.

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Scendo a Marble Arch che il vento di butta addosso l’aria di Hyde Park che è odore di erba tagliata e cotta e pollini. Con questa musica le turiste in sightseeing sui tetti degli autobus sembrano albatross in tuffo da una scogliera. Prendo il 73 perché 7 più 3 fa 10. 1 e 0 il codice binario, la sotto struttura. L’aria sul bus sa dei cartoni del cibo esotico take away. C’è qualcosa di afrodisiaco nella luce dello zenit. Scenderò a kings cross. Nelle stazioni è sempre pieno di figa.

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Passando da Oxford Street non puoi fare a meno di notare il carosello dei claim di certi Brand stampati su milioni di shopping bag. Alcuni ti invitano a farlo e basta. Mi chiedo cosa. Mi rispondo che dipende, ma la folla sembra andare in un’unica direzione. Una fila di 1 in un codice binario in cui lo 0 non esiste. Quasi non ci fosse alternativa. Forse per molti non c’è. Con questa musica mi chiedo come abbiano fatto gli occhiali rosa fluo a resistere al declino degli anni 90.

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[pullquote]Così finisci per non sentirti più in balia. È un equilibrio sintetico quello da cui, in fondo, tutti quanti cerchiamo lo strappo[/pullquote]

A Warren Street un senza tetto tiene a guinzaglio un cane invisibile. Un altro un cane vero. Credo sia la loro vetrina, un modo come un altro per attirare l’attenzione della gente che esce esausta da Oxford street, abituata com è a farsi rapire da negozi e grandi magazzini. Pare non funzioni, i prodotti e il marketing delle grandi corporate hanno un ritorno sull’investimento più alto di due e quattro zampe accartocciate su un marciapiede. Con questa musica mi sento meno attratto dalla sfilata di bei culi in kings cross e scendo a euston station.

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A Euston decido di mangiare insieme a un branco di piccioni in baruffa per il poco pastrami che mi cade a terra. Oggi l’aria è fresca e il vento soffia da nord. Dimenticavo che anche Euston è una stazione e non posso fare a meno di innamorarmi un paio di volte o poche più. Al semaforo vedo la chiesa di St. Pancreas ma ci giro intorno, entro da dietro per evitare ancora una volta il confronto con un dio in cui non credo. Quattro statue mi fissano, ma è la porta rossa a chiedermi di entrare. La cripta è meno fresca dell aria del giorno e l’umidità che va a spasso nei cubicoli mi fa venire sonno. C’è un tipo che sposta qualcosa è gli chiedo dove sono finito. La Crypt Gallery è chiusa al pubblico ma lui non mi fa uscire, probabilmente si sentiva solo con le ossa dei santi a guardarlo tutto il giorno. Faccio un giro ma poi sento il bisogno di fumare. Con questa musica il sole inizia a calare.

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Diciamo che mi sono lasciato affascinare, ma se ci credessi davvero ne avrei perso l’essenza. A vagabondare finisci per non sentirti più in balia. È un equilibrio sintetico quello da cui in fondo tutti cerchiamo lo strappo. L’estetica è feroce, brutale. Il codice binario spacca il mondo a metà. C’è chi cerca di addomesticarla e chi l’accetta e basta. In entrambi i casi ci si ritrova sempre in loop.

*Per vedere gli altri lavori di Nicola Favaron cliccate qui

Giorgio Cremonesi

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Il piombo di Scurati

E adesso indossate tuta d’amianto e scafandro, ché c’è da maneggiare materiali pesanti e pericolosi…

 

Non so cosa porti Antonio Scurati a caricare in modo così estremo la sua prosa. So però che dopo aver letto certi frammenti il bisogno di riprendere fiato è impellente. Perché in quei momenti spesi dentro la gabbia d’acciaio della prosa scuratista il senso di gravità richiede la fuga in cerca di sospensione. Chi non ha mai letto le pagine di Scurati non immagina. Perciò è necessario andare immediatamente sul pezzo per far intendere di cosa si stia parlando. Lo faccio citando uno stralcio iniziale di Il Sopravvisuto (IS), nel quale viene data voce al professor Andrea Marescalchi. Questi non riesce a darsi pace per non aver intuito in tempo quale demone si agitasse nel suo studente favorito, lo stragista Vitaliano Caccia. In quel passaggio (pagine 9-10) il professor Marescalchi viene descritto intento:

[a] dannarsi per aver prediletto questo figlio bello e sciagurato con tanta capricciosa ostinazione da non aver scorto i suoi piedi caprini, da non aver mai intuito dietro la sua noncuranza la spietata neutralita` della natura riguardo agli affanni delle creature, da non aver mai udito nelle sue diuturne sonnolenze gli echi delle forre, delle grotte, delle caverne e di tutti gli altri luoghi selvaggi in cui erigeva i suoi santuari, da non aver mai scorto la testolina cieca della tenia cannibale che gli scalpitava negli intestini fare capolino da sotto la pelle tesa del suo ventre piatto. Io, piu` cieco della tenia cieca, non ho saputo assaporare nei rutti da avvinazzato del mio prediletto la cattiva digestione dell’universo.

[pullquote]La terrificante scoperta fatta da ogni lettore di opere scuratiste: credere di star leggendo un libro, ritrovarsi senza preavviso a fare da crash tester di un set di padelle[/pullquote]

Credete sia soltanto immaginario il cerchio alla testa che vi sta attanagliando? E invece è proprio una padellata che vi è stata appena assestata sul cranio da Scurati Antonio, e ciò che adesso vi cinge la fronte è il manufatto col buco intorno. Questa è la terrificante scoperta fatta da ogni lettore di opere scuratiste: credere di star soltanto leggendo un libro, e invece ritrovarsi senza preavviso a fare da crash tester di un set di padelle. Ci sono poi descrizioni il cui solo effetto ricercato sembra quello di provocare una crisi cardiaca da risata inestinguibile. Leggete un po’ questo frammento a pagina 267 di Il bambino che sognava la fine del mondo (BSFM), dove si descrive l’incontro fra l’Ultra Ego scuratista e la madre. Della donna viene descritto un dettaglio con la sobrietà che è propria all’autore: La vena che l’età le andava ispessendo in mezzo alla fronte si stagliò nella luce declinante di quella casa meridionale rivolta a Occidente.

Avrete ormai capito che in questo capitolo abbiamo a che fare con un tipino sobrio. Uno che ovunque vede i segni dell’assoluto e quasi li fa somatizzare ai suoi personaggi:

Mentre contemplava lo schermo gigantesco, montato in tutta fretta da una squadra di operai su una struttura di tubi Innocenti, assicurata al suolo da una ragnatela di cavi e tiranti, Andrea Marescalchi pensò che si era ormai giunti al settimo giorno dopo la strage. Il giorno in cui persino Dio panto creatore si era riposato, una volta messo assieme l’universo, e quel giorno, non a caso, cadeva di domenica (IS, p. 157; e rimane da capire chi sarà a mollare la megascoreggia).

Avvertiti del fatto che nella visione del mondo scuratesca tutto si tiene, avete adesso idee e bernoccoli a sufficienza per comprendere perché mai il professor Marescalchi avverta se stesso come il punto focale dell’universo a causa della propria condizione di sopravvissuto:

Lui era un sopravvissuto. Una minuscola bolla di sangue, cresciuta sulla sconfinata epidermide negra di un universo insensato e ostile, inattesa di essere ridotta a una macchiolina impercettibile dalla leggera pressione di una forza ignota e inesorabile (IS, p. 178)

[pullquote]Quando parla di sesso a Scurati vorrei domandare: che trauma hai subito in gioventù? Ti si è parata innanzi la visione della Grande Vagina Dentata pronta a divorarti?[/pullquote]

Ci sono poi i frammenti da ricondurre sotto la dicitura Parla come mangia. E a proposito di questo c’è da aggiungere che se Scurati mangiasse come scrive, la sua dieta alimentare sarebbe terrificante. Giusto per capire, leggete il frammento a pagina 26 di IS: I docenti lo videro entrare attraverso la grande portafinestra grazie alla quale la palestra, posta al pianterreno, affacciava sul parcheggio retrostante la scuola, dal versante est.

Agghiacciante. Sarebbe bastato dire che i docenti lo videro entrare dalla portafinestra che dava sul parcheggio. E invece no. Bisognava specificare: a) che la palestra era posta al pianterreno; b) che grazie alla portafinestra la palestra affacciava sul parcheggio; c) che ilparcheggio era retrostante la scuola; d) che il versante dell’edificio era quello est. Una raffica d’informazioni superflue, più o meno come la vena in fronte della madre che pulsava verso occidente. Il solo effetto è quello di mettere carichi di piombo addosso al periodo, e di rafforzare il colpo di padella sul cranio del lettore.

Leggete quest’altro, a pagina 39 di IS: Non appena Andrea comprese che quel ticchettio periodico era l’equivalente sonoro dell’ostinazione con la quale il suo muscolo cardiaco si era imposto di mantenere in vita, un’aritmia venne a sfregiarne la regolarità ottusa. Traduzione: Non appena il battito cardiaco avvertì Andrea d’essere ancora vivo, giunse un’aritmia a rovinare quella sensazione di ritrovato benessere. Andiamo avanti?

Avrei amato dirvi che con queste ultime citazioni si chiudesse la lista delle inquietanti fisse scuratiste. E invece, purtroppo, il capitolo piu` penoso deve ancora essere aperto. Prendete un attimo di respiro, please.

La questione di cui vengo a parlarvi adesso è seria. E certo la tentazione di prenderla a ridere (persino in modo sgangherato) pressa forte, sicche mi è richiesto un supplemento di serietà per trattarla col piglio analitico dovuto. E poiché l’argomento è quello relativo a Sesso & Eros, ossia quanto di più prossimo all’intimità della persona sia dato immaginare, è doveroso muoversi con cautela. Senza che ciò significhi mettere da parte le valutazioni e la propria capacità di giudizio, tuttavia. E senza che ci si debba peritare di rivolgere a Scurati la domanda dura ma indispensabile: che trauma hai subito in gioventù, Antonio? Ti si èparata innanzi la visione della Grande Vagina Dentata pronta a divorarti come la balena di Pinocchio? Gli interrogativi sono più che giustificati, e per capirne il motivo bisogna leggere i frammenti scuratisti dedicati al sesso. Lì trovate il dominio massimo della sofferenza, della disumanizzazione, persino del disgusto. Alle pagine 210-1 di IS descrive il rapporto del professor Marescalchi con la collega Manuela. I due sono single e perciò si concedono l’una all’altro in mancanza di meglio.

Da un anno a questa parte non me la scopo nemmeno piu`. Lascio che sia lei, volontaristicamente, a gingillarsi con il mio pene riluttante. Lo massaggia, lo carezza, lo bacia, lo inghiotte, lo spegne con la sua persona e lo riaccende grazie alla impersonale appartenenza alla specie comune. Un legame animale ogni giorno piu` lasco, piu` molle come il mio pene nella sua bocca. Anche ieri e` andata cosi`. Mi ha strappato un’erezione crepuscolare, un’eiaculazione acquosa.

Provate un attimo a mettere fra parentesi il senso di profonda desolazione suscitato dalla lettura di questo frammento, e guardate ai passaggi concettualmente e linguisticamente più significativi. Si parte dal pene riluttante. E già l’utilizzo del termine pene suscita tristezza a prescindere, a causa di quel tono così pesantemente anatomico.  C’è poi quel confuso riferimento all’impersonale appartenenza alla specie comune. Mistero. Poi l’erezione crepuscolare, e l’eiaculazione acquosa. Chi ha letto i libri di Antonio Scurati sa che il frammento riportato sopra non è un’eccezione, ma la norma. In quelle pagine il sesso è l’attività più squallida e degradante che gli esseri umani possano concedersi, e il senso di questa visione delle cose viene portato avanti con accanita dedizione.

[pullquote]E poi c’e` anche lo Scurati maldestro. Quello che cercando di dare la massima pompa alla sua prosa si perde in errori e incongruenze da ragazzino di scuola media ai primi cimenti[/pullquote]

E poi c’e` anche lo Scurati maldestro. Quello che cercando di dare la massima pompa alla sua prosa si perde in errori e incongruenze da ragazzino di scuola media ai primi cimenti. Cosa per un verso poco edificante, se s’ha da giudicare lo scrittore con pretese da grande intellettuale della contemporaneità; ma che per un altro verso suscita tenerezza. A pagina 222 di IS. Si parla della terapia cui il professor Marescalchi si sottopone per superare il trauma della strage. Sulle prime sembra un qualsiasi frammento che replica il tenore del mondo marcio e fituso, ma poi alla fine giunge lo sfondone:

La settimana successiva, il 25 luglio, Andrea, accompagnato da Cesare, si recò a Milano a incontrare il dottor Maio. La citta` sembrava una giungla pluviale di asfalto liquefatto, soffocata da una vegetazione equatoriale di grattacieli il cui fitto ombrello di cemento tratteneva il calore in una cappa umida. Giu` in basso, al suolo, si trascinava una popolazione composta da vecchi abbandonati in lotta con il loro enfisema polmonare, cani randagi, psicolabili schiantati dal calore urlanti come babbuini, delinquenti in cerca dell’occasione, pezzenti orfani della fuga in riviera, immigrati clandestini. Questi ultimi, nel disagio estremo dell’agosto metropolitano, si sentivano finalmente in patria.

Altre notazioni sparse. A pagina 209 si trova la seguente descrizione:

Si aggrappava a fatica all’esistenza come un gattino nato cieco. Molle sulle gambe, claudicava, barcollava, sbandava. A ogni passo, sembrava dovesse crollare: una cucciola di cerbiatto, appena partorita e ancora imbrattata di placenta.

Qui bisogna che Scurati si decida: e` un gattino nato cieco o una cucciola di cerbiatto appena partorita? Poi c’e` anche la passione scurartista per la formula a mo’. Utilizzata a raffica:

– (…) a mo’ di estremo tributo (IS, p. 73)
– (…) a mo’ di torcia (IS, p.97)
– (…) a mo’ di correttivo (IS, p. 115)
– (…) a mo’ di didascalia (IS, p. 159)
– (…) m’informo` a mo’ di spiegazione (BSFM, p. 115)
– Il fuggitivo continua la sua marcia tra le canne seguito dal cane,
aprendosi un varco con il gladio usato a mo’ di machete (La seconda mezzanotte, p. 248)

Pare di ascoltare Peppino Di Capri: E mo` e mo`/ te voglio bene. E ancora, c’e` la questione del buon uso dell’italiano. Su questo versante lo scuratista non si sottrae dal darci delle soddisfazioni. Cominciamo con un periodo in stile Io speriamo che me la cavo, cavato da pagina 9 di BSFM:

Nemmeno la parte restante, pero`, si puo` dire se ne sia preservata.

Nemmeno lui, se e` per questo. Per chiudere, arriva un saggio sul buon uso delle parole. Scurati lo esibisce a pagina 35 di BSFM, dove si descrive la visita di una troupe televisiva presso la scuola Rodari, quella coinvolta in un presunto caso di pedofilia:

La telecamera, traballante, ci conduce in corridoi popolati di bambini di quindici diverse razze e di cinque continenti.

Avete letto bene: non quindici diversi paesi, o quindici diverse etnie, ma proprio quindici diverse razze. Fra i tanti premi
conferiti o sfiorati, allo scuratista manca il piu` meritato: il Premio Mario Borghezio.

* Questo pezzo è un estratto dal capitolo dedicato a Scurati di L’importo della ferita e altre storie. Frasi veramente scritte dagli autori contemporanei Faletti, Moccia, Volo, Pupo e altri casi della narrativa italiana di oggi (edizioni Clichy)

 

 

 

Pippo Russo

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Ezio Vendrame

Nella mia mente, come in quella della stragrande maggioranza delle persone – potrei scommetterci – i calciatori sono persone rozze, ignoranti, volgari. Tutto il contrario dei poeti: i più sensibili degli esseri umani, i “mezzi” attraverso il quale l’umanità esprime i propri tormenti, le proprie gioie, la vita. Che succede quando queste peculiarità incontrano due piedi buoni? Succede che giocare a calcio diventa il sistema con cui mantenersi, abbuffarsi di esperienze, vivere bene – meglio, tutto sommato, di quanto non sarebbe stato con un altro lavoro. Significa sentirsi spesso a disagio, però, vivere nel tormento. Significa vivere come Ezio Vendrame, ex di Vicenza, Napoli, Padova, calciatore e poeta. La sua, di vita, inizia con un trauma: all’età di sei anni viene affidato dai genitori ad un collegio – un orfanotrofio, dice lui. Di quel periodo Vendrame ricorda i pianti senza lacrime, il cuore strangolato ed il pensiero di essere stato particolarmente sfortunato, a diventare orfano pur coi genitori in vita.

«Di quell’istituto, gestito da un prete (un certo padre Osvaldo Donadon), mentre gli assistenti erano dei ragazzi universitari, ricordo la fame, la paura, la pipì che facevo nel letto, le angherie dei più grandi, ma soprattutto quell’abisso, quel vuoto immenso dell’Assenza».

È in occasione delle vacanze estive, trascorse con la colonia del collegio, che viene notato dal medico sociale dell’Udinese, mentre gioca una partitella assieme agli amici. Terminati gli studi, dopo un provino brevissimo, le porte della società friulana si aprono d’innanzi a lui, dando inizio alla leggenda del Vendrame calciatore. Vendrame è un simbolo, per chi negli anni ’70 siede sui banchi di scuola: come ricorda Sebastiano Vernazza, la sua figurina, così come l’immagine del Che o una canzone di Bob Dylan, segna l’appartenenza al partito del peccato, a quello del cuore, della libertà. Gianfranco Zigoni, suo coetaneo (tre, gli anni di differenza) e praticamente suo conterraneo (quaranta, i chilometri che li separavano), è spesso suo compagno d’avventure. Il repertorio, infatti, si assomiglia:

le cene in una «‘magica’ trattoria» (da Luigino, a Vicenza)

«Ci davamo dentro in quel locale, quasi ogni sera, a volte fino a notte fonda, bevendo, mangiando, ridendo, suonando, godendo ed esagerando. Eravamo l’eccesso a tutta forza! Se riuscivi a sopravvivere a Luigino e a una delle sue nottate, affrontare una partita di calcio diventava un’inezia!»

la passione per le femmine

«Avrei sputato sangue e donato un rene per la figa. Però quelli erano tempi grassi e quindi quei sacrifici non servivano».

«Ero diventato un can da figa. Per me era impossibile resistere al richiamo dell’odore di femmina. E quasi sempre scordavo che avrei dovuto fare soltanto il calciatore».

«I lunedì erano giornate di riposo per i calciatori, ma non per me: i miei erano pieni fino all’orlo. La mia casa sembrava uno studio di ginecologia. La giornata di visite iniziava già alle 9 del mattino con la signora Giuliana; alle 11 sarebbe arrivata la signora Carla; alle 14 la mia amica Lella; alle 18 quella troia della Fernanda e infine, alle 22, toccava alla novità della settimana».

e la continua tensione all’eccesso, tipica di chi porta con sé una depressione latente

«Soltanto io conosco le mie partite infinite, quelle che cominciavano ogni sabato notte, coricandomi, e terminavano alle prime luci dell’alba quando i miei compagni ancora dormivano ed io, con la sigaretta in bocca ero già in giro per la città alla ricerca di un caffè e di un cesso dove vomitare la bile. E soltanto i miei compagni e i miei allenatori sanno che non potevo pranzare prima di una gara perché se avessi ingerito anche un solo grissino, avrei rigurgitato l’anima! Come avrei potuto essere un calciatore vero in quelle condizioni? Ad ogni fischio d’inizio ero già distrutto, avevo già giocato, avevo già finito. Però, nonostante tutto, c’è chi si è sempre accontentato. Anche delle mie briciole!».

Vendrame_chitarra

A distinguere Vendrame è una sensibilità fuori dal comune o, quanto meno, delle barriere più fragili, muri meno spessi, meno capaci di contenere tutto quello che ribolliva dentro al suo animo. Una profonda amicizia lo ha legato a Piero Ciampi, un regalo che la vita gli ha concesso, a suo dire, e che ha nutrito a piene mani la sua anima, segnandola per sempre.

«Piero mi raccontò che un giorno, a Padova, si trovava con Marcello Micci ed era andato a vedere una partita di Ezio. Questi, quando lo scorse in tribuna, fermò il gioco e, fra lo stupore generale, andò a salutare gli amici. Piero raccontava questo episodio ed era felice per quel ricordo dissacratorio quanto amabile».*

Smessi i panni di calciatore, Vendrame comincia a scrivere. In prosa, raccontando le sue gesta e quelle dell’amico Zigoni, ed in poesia – «La scrittura mi sta salvando dal suicidarmi. Non ho alternative.», afferma oggi. Versi tristi, possiamo dirlo. Versi che esprimono un’angoscia profonda, uno sguardo nero, sulla vita, sul presente e sul futuro. Qualche boutade, qualche sorriso amaro, in mezzo ad una grande disperazione. Conoscete un altro calciatore esistenzialista? Oltre a scrivere, insegna il calcio ai giovani ed ai bambini, con le idee, lo stile e le intenzioni di un animo puro, come quello dei suoi allievi.

«Affanculo pressing, squadra corta, fuorigioco e diagonali. Ci sputo sopra agli inventori di queste cagate! Il calcio vero è un’altra cosa, ha un’anima che almeno a livello giovanile dovremmo salvaguardare! A loro dico che a 14-15 anni è normale farsi le seghe e se trovano una ragazza che collabora è ancora meglio! Casomai è chi non se le fa che è malato e non è giusto che giochi. E la domenica, quando abbiamo dato tutto e siamo a posto con la coscienza, dobbiamo sempre accettare anche la sconfitta, senza alcun dramma, perché il gioco del calcio è soltanto un gioco: una piccola cosa della vita. Non dobbiamo stare male più di tanto quando perdiamo una partita, ma quando perdiamo un affetto, o quando deludiamo qualcuno che ci ama! Ma tutto questo loro lo capiscono subito. Sono gli adulti che non comprendono, a cominciare dai genitori. Per questo motivo sogno da sempre di allenare una squadra di orfani!».

Negli ultimi anni, riprende a farsi vedere in qualche occasione pubblica – contesto che lui detesta, come immaginabile. Prende parte ad alcune presentazioni, viene invitato a parlare. La depressione, forse, è meno acuta, i toni cupi delle poesie si stemperano. Quello che resta è l’amore per l’amore e, sotto sotto, anche un poco per la vita.

«La terra a volte mi sembra che sia diventata l’inferno di un altro pianeta ma è in questo mondo che dobbiamo pensare di salvarci. L’amore è tutto. Solo l’amore può dare ampiezza alle cose, nel tempo e per il tempo. L’amore che ha questa stramaledetta condanna della perdita: non si può amare davvero qualcuno senza il timore di perderlo. Senza la sofferenza non è amore, diventa un’altra cosa. Vivo le cose con il cuore perché se uno non vive le cose con il cuore cammina senza gambe. Bisogna cercare di cogliere le cose più belle che ci dà questa cazzo di vita e assaporarle, masticarle, farle tue, anche perché secondo me non è ciò che si vede che esiste ma solo ciò che si sente». **

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* Così Pino Pavone nella introduzione di Un farabutto esistere, contenuto nella raccolta Il mio cuore stuprato, di Ezio Vendrame, edito da Edizioni Biblioteca dell’Immagine.

** Così in questa intervista qui. Tutti i virgolettati riportati in precedenza, a eccezione di quanto affermato da Pino Pavone, sono estratti del libro Se mi mandi in tribuna, godo, di Ezio Vendrame, Edizioni Biblioteca dell’Immagine

@giovane_albert

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