«E’ in Cecenia che ho visto la prima testa mozza, tagliata con un coltello, secondo il rito bestiale. All’inizio, nella semioscurità mi era sembrato un pallone da calcio. E invece era una testa, un soldato russo. È lì è iniziata la discesa agli abissi furiosi dell’inferno». Era il 1995 e su questo inferno Domenico Quirico ha scritto un libro, Il grande califfato (Neri Pozza), un viaggio nei luoghi dove il terrorismo islamista globale, così lo chiama, è nato, cresciuto, si è radicato ed è esploso: dall’Iraq alla Turchia, dalla Nigeria al nord Africa. Un viaggio che Quirico ha vissuto da inviato di guerra, passando anche dai rapimenti in Libia, nel 2011 per due giorni, e in Siria nel 2013 per cinque mesi. Ora Quirico ha 63 anni, è caposervizio esteri de La Stampa e quando parla ti fa sentire anche le virgole, soppesa le parole, s’infervora, poi si ferma all’improvviso, come se per lui non esistesse una risposta definitiva ma solo una costante ricerca da portare avanti con l’esperienza, recandosi laddove le cose succedono, «l’unico modo, eternamente, per capire».
Adesso che il rischio attentati è alto, che in Libia l’Islam radicale avanza e in Europa, dopo gli attentati di Parigi, viviamo sotto scorta, si può affermare che si stava meglio quando la situazione nei Paesi Arabi era controllata dai dittatori?
«Non riuscirà mai a farmelo dire: le dittature come quella di Gheddafi sono una delle ragioni per cui il califfato è diventato quello che è diventato. Gheddafi, ad esempio, per troppo tempo ha fatto il deserto attorno a sé solo per alimentare il proprio potere».
Nel suo libro spiega che il pericolo non è se i terroristi arriveranno sui barconi, ma un altro.
«Il pericolo è che, occupando le zone della Libia da cui i migranti partono, i jihadisti mettono mano su un bottino che vale molto: non il petrolio, ma gli uomini, gli uomini e la loro obbedienza. Diventano padroni di decine di migliaia di disperati, i subsahariani. Gheddafi ne aveva intuito il potenziale nocivo, ma li usava per i suoi mediocri ricatti minacciando di scagliarceli addosso come onde umane quando gli affari non andavano bene. Per questa nuova versione dell’Islam militare e politico avere a che fare con decine di migliaia di persone completamente vuote nella loro identità, disposte a tutto pur di sopravvivere, che possono facilmente essere manipolate e trasformate in qualcos’altro, è un’opportunità».
Se fosse consulente del governo quale soluzione consiglierebbe per contenere questo problema?
«L’errore più grande che si può fare è di affrontare il problema di un singolo Paese come se fosse separato dagli altri, perché per i terroristi islamici la creazione del califfato è un disegno complessivo. Il secondo errore da non fare è di perdere tempo e denaro in inutili tavoli di trattative dove riunire le forze politiche libiche, che tranne alcune eccezioni non sono altro che gruppi tribali, di fanatici o di banditi. Attenzione a non immaginarsi una Libia che non c’è».
Lei ha letto Sottomissione di Houellebecq?
«No, detesto quel personaggio, è un mediocre scrittore».
Sostiene che siamo solo all’inizio, è d’accordo?
«Se intende che il progetto totalitario del califfato ci angustierà per ancora molti anni sì, sono d’accordo».
La sensazione che traspare nel suo lavoro è che l’Occidente abbia perso 20 anni. È questa la nostra colpa?
«Non abbiamo capito cosa stava succedendo. Già in Algeria 20 anni fa, io ero laggiù e ho cercato di raccontarlo, c’erano tutti gli elementi caratteristici del terrorismo islamista globale: la separazione noi-loro, la violenza, la ferocia, mi ricordo che cucivano la bocca alla gente. Ma quello fu solo uno dei primi tentativi di saggiare il terreno e cercare di realizzare il progetto di installare uno Stato che poi ha trovato linfa nel caos siriano. Tutto questo è passato davanti al naso delle cancellerie, delle élite occidentali per un periodo di tempo molto lungo e non è mai stato interpretato nel modo corretto, nella volontà cioè di creare un grande Stato islamico integralista. Loro lo hanno sempre dichiarato e scritto, e dov’erano quelli che lo dovevano capire, dov’erano gli intellettuali, gli analisti del mondo musulmano che avrebbero dovuto saperlo?».
Dov’erano?
«Nei caffè o nelle università italiane, inglesi o americane a raccontare un islam che conoscevano per sentito dire, perché magari avevano partecipato ai convegni nello Sheraton del Cairo o di Abu Dhabi. Chi di questa gente ha mai visto un jihaidista in faccia? Chi conosce il suo carattere? Nessuno ha capito che questi stavano e stanno combattendo una guerra eterna, se non eterna, secolare. Un tunisino mi ha detto: “Noi costruiremo il califfato. Uno, dieci, cento anni, che importa?”. C’è una diversa concezione del tempo, questa è gente che si sente parte di una rivoluzione, di una storia».
Lei ha sempre intravisto delle similitudini tra nazismo, stalinismo e il totalitarismo islamico.
«Negli anni 30 in Europa abbiamo commesso degli errori decisivi per lo sviluppo del nazionalsocialismo. Il primo bluff di Hitler fu la ri-militarizzazione della Renania, violando gli accordi di Versailles. La Francia avrebbe potuto fermarlo in un giorno, ma lo lasciò fare, e sa perché? La crisi economica. Il problema principale del governo francese nei giorni in cui Hitler lanciava la sua sfida era la svalutazione del franco. Le comparazioni con l’oggi sono fin troppo semplici. Anche noi abbiamo trascurato l’Islam totalitario perché impegnati a preoccuparci dei debiti che le banche hanno nei confronti della Grecia, del pil e di queste robe qua».
Inoltre abbiamo sottovalutato la forza delle religioni. C’è anche un problema culturale e spirituale?
«Eccome se c’è. Ci troviamo di fronte a gente che in tutta questa ferocia vede l’immanenza di Dio, e che crede profondamente e sinceramente, secondo per secondo, che Dio sia presente nei loro progetti e che giustifichi anche le reazioni più atroci. Per noi questo è inconcepibile e non comprendiamo come questi personaggi si sentano dei santi pur sgozzando innocenti. Certo, anche per noi la religione ha costituito uno strumento di massacro, ma quel momento ormai è stato superato dalla storia: la differenza enorme che ci divide da loro è in questo scarto».
E l’Islam moderato?
«Esiste, la stragrande maggioranza dei praticanti di quella religione non è formata da jihadisti, ma non sarà mai capace di schiacciare la minoranza dei fanatici, perché non è possibile, perché non accade mai così, perché sono le minoranze che manipolano la storia».
Come giudica l’operato di Obama?
«Mi limito a valutare il rapporto tra la sua presidenza e l’Islam. Ebbene, c’è qualcuno che si ricorda il famoso discorso di Obama al mondo musulmano? Era trita retorica che non porta a niente».
Quello di Papa Francesco?
«Tutte le volte che sento la splendida parola dialogo, la domanda brutale che pongo è: ma dialogare con chi? Il dialogo è fatto da due soggetti e l’Islam totalitario non ha alcuna volontà di dialogare con qualcuno. Che facciamo, una telefonata ad Al Baghdadi?».
E il governo Renzi?
«Posso dirlo molto brutalmente? Le possibilità pratiche che l’Italia abbia un ruolo in tutto questo sono forse dello 0,1».
Il grande califfato è pervaso dall’attesa della fine. Nel capitolo intitolato “Avanzano” scrive: «Ogni giorno depenniamo lembi che non possiamo più percorrere. A Tripoli, a Baghdad si sbarrano le ambasciate, fuggono i residenti occidentali, le imprese indietreggiano abbandonando mezzi e denari: segni chiari della ritirata, della sconfitta». La prospettiva finale è ineluttabile? Moriremo islamici?
«Dal punto di vista militare l’occidente conserva ancora un enorme vantaggio ma nelle altre parti del mondo il clima è quello di un’enorme, gigantesca ritirata. Ovunque».