Archivi del mese: Ottobre 2016

Vitelloni si muore

Questo articolo è stato ispirato dal titolo di una intervista del 1975 sul settimanale “Gente”, ritrovata in uno scatolone polveroso in soffitta. Ne sono usciti tanti ricordi, nessun rimpianto e, soprattutto, la storia di una persona che ha coronato i propri sogni di bambino: essere proiettato dal cinematografo, avere belle donne, guidare auto di lusso e cavalcare un’epoca irripetibile della storia italiana. Con un finale rarefatto e un ritorno alle origini di scuola neorealista.
Franco Fabrizi in una scena di un film

Franco Fabrizi, all’anagrafe Francesco Fabbrizzi (con due b e due z), nato a Cortemaggiore nel 1916 – nonostante per vanità ne abbia sempre dichiarati 10 in meno – era il cugino di mia nonna. Avrebbe compiuto 100 anni lo scorso 15 febbraio. Lo conobbi come “lo zio” di Roma, ospite fisso a casa. Che sia stato un grande o un mediocre attore, poco importa. Collezionò oltre 160 film, ma un ruolo in particolare non ha voluto o saputo abbandonare, nel cinema e nella vita: Fausto, il Vitellone.

La carta d'identità di Franco Fabrizi

Grazie a quella parte, affibbiatagli da Federico Fellini nel ‘53, mi è tornato alla mente quel signore alto alto, che tutte le domeniche all’ora di pranzo si presentava a casa. Puntualissimo. Tanto che io, piccolo piccolo, lo aspettavo scrutandolo dalla siepe che dava sulla strada, senza farmi vedere, arrivare con quel passo dinoccolato ma sicuro: pettinatura impeccabile alla Cary Grant, giacca e pantaloni di sartoria Caraceni rigorosamente su misura, scarpe in pelle lucida e quel profumo intenso che lo precedeva di qualche metro (Fracas for men, di Robert Piguet). Una volta davanti al cancello, lo lasciavo suonare il campanello e poi sbucavo fuori: ciao Franco! Un grande sorriso, un buffetto con la manona enorme e morbidissima e via a tavola, dove si sedeva con fare teatrale e raccontava i mille aneddoti tratti dalla “dolce vita” romana.

Fabrizi e Mariangela Melato

E così, mentre mia nonna sgobbava ai fornelli, incurante di non essere in scena, spiegava sbracciandosi di quando andava a mangiare da Vittorio De Sica, al quale portava un culatello (intero) e con cui giocava a carte e poi vedeva la partita in tv. Oppure di quel personaggio tanto in voga al momento che, a suo dire, non sapeva modulare una semplice battuta: “U purtasti ù pane, papà?”. L’avrà ripetuta cento volte, in modo diverso. E mentre mia madre sparecchiava, lui era ancora intento a cercare una nuova versione. Stesso copione al matrimonio di mio zio. Come rinunciare ad essere al centro della scena? Conclusa la cerimonia religiosa, siamo seduti per pranzare in una grande sala. Io di fianco a lui, in un tavolo con circa dieci persone. Gli altri tavoli intorno. Le prime portate scorrono noiose, come ad ogni matrimonio. A un certo punto, l’ennesimo assaggio è un tortino salato, con un fiore disegnato in superficie. È in quel momento che lo sento, in crescendo, cantare: “Cùsa l’è cheschì? Cùsa l’è cheschì? Saraaaa un fiore!!!”. La voce parte piano, sale sinuosa cambiando tono, fino ad riecheggiare per l’intero ristorante. Anche in questo caso in cento versioni, fra stupore e risate dei commensali, strappando la ribalta agli sposi.

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Gli attori sono così, lo devono essere. Se no cosa li spingerebbe su un palco o dietro a una macchina da presa, a continuare nell’impresa di vivere l’esistenza di qualcun altro? Oggi, domani, dopodomani, fino a non capire più quale sia la tua o quella fittizia. La sua era quella del Vitellone. Dal dizionario: giovane, specialmente di provincia (chissà come mai?), incapace di elevarsi o di evadere dalla piatta mediocrità dell’ambiente in cui vive, e perciò dedito a una vita oziosa, indolente, fatua. Franco Fabrizi era quello che desiderava. Ma, a differenza del personaggio, l’amore per lo sfarzo e le spacconate, l’incedere pigro e un po’ snob, l’aria da tombeur de femmes e la battuta tagliente non erano pose da gagà, ma conquiste di un ragazzo scappato dalla campagna in cerca di fortuna. Una rivincita sulla mentalità rurale dalla quale proveniva, che considerava “ambiguo” il mestiere di modello, così come futile e da scansafatiche quello di attore.

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Il figlio della cassiera del piccolo cinema Astra e di un barbiere di provincia, ne aveva fatta di strada. Inutile soffermarsi su quel che ognuno può trovare on line. Dagli esordi nel ’48 come mannequin alle sfilate milanesi al passaggio nella prosa con Walter Chiari. E poi il trasferimento a Roma, il tentato salto nel cinema, andando avanti “un anno a caffè e latte”, come amava raccontare. Finalmente, nel ’53, l’esordio da protagonista, dopo alcune comparsate, nel film culto “I Vitelloni”, al fianco di Sordi e Interlenghi, al quale seguono altri ruoli importanti – come nel felliniano “Il Bidone”, in “Camilla” di Emmer, in “Racconti romani” di Franciolini o in “Un maledetto imbroglio” di Germi. Poi tante altre pellicole, tra alti e bassi, fino agli ultimi cammei in “Il Piccolo diavolo”, al fianco di Roberto Benigni e Walter Matthau, in “Grandi magazzini” nell’epica scena con Renato Pozzetto e, sempre con l’attore milanese, in “Ricky e Barabba”, interpretato e diretto da Christian De Sica. Sempre con addosso la maschera di quella gioventù scioperata anni ’50-‘60, nata all’ombra del miracolo economico: fannullone, furbo e donnaiolo ma sostanzialmente buono.

Franco Fabrizi e le donne

In mezzo una vita meravigliosa, attraversata da belle donne “che ho amato tutte, per quello non mi sono mai sposato”, auto di lusso “comprate, vendute e distrutte in egual misura”, cene faraoniche, visto che “da buon emiliano non riesco a rinunciare a una mangiata” e occasioni perse. Come quella volta che Germi gli propose una sceneggiatura: “Ma sono i Vitelloni da vecchi”, rispose. In realtà era “Amici miei” e la sua parte era di Lello Mascetti. Alla morte di Germi la sceneggiatura passò a Monicelli che, alle sue titubanze, scelse Ugo Tognazzi. Non sarà l’unico errore, anche a causa di un carattere non semplice. Famose le sue piazzate sui set, che abbandonava per poi, puntualmente, riappacificarsi. Avvenne anche con Fellini che, in Ginger e Fred, nel 1985, dopo avergli affidato la parte del cinico presentatore, lo volle doppiare. Lui la prese male. Dallo scatolone riaffiora la lettera del regista, in cui esordisce con “caro Franchino” e conclude: “Vedrai che alla fine tornerà a vantaggio del personaggio e quindi dell’attore Fabrizi”. Aveva ragione. Il ruolo gli valse il David di Donatello come miglior attore non protagonista.

L’ultima fase è quella più lontana dalle luci della ribalta e quindi la più vera. La malattia, le operazioni, le cure lo avevano avvicinato ai parenti, nei quali aveva trovato quella famiglia abbandonata in gioventù e che non seppe costruirsi da solo. Ricordo le visite nella sua casetta, tutta drappeggiata e buia buia, vicino al centro storico di Cortemaggiore. Lui sonnecchiava, guardava la tv (soprattutto sport) ma quando arrivavo non si faceva mai trovare senza vestaglia e ben pettinato. Così come il sorriso, no, quello non lo ha perso mai. “Sarei tornato prima a vivere qui” – raccontava – “ma dopo la scoperta del petrolio [da parte dell’Agip, che lanciò appunto la benzina Supercortemaggiore], tutto era cambiato. Una volta, nel silenzio dell’estate il passaggio di un carretto di gelati era un avvenimento. Adesso ha un’aria da periferia di gran città. Tanto valeva stare a Roma”. Ora l’Agip se ne è andata davvero, il passaggio di un carretto di gelati non è un evento, però poco ci manca. Lui non c’è più, ma credo gli sarebbe piaciuto il suo paese, tornato tranquillo. Come quando Franco, bello e irrequieto, decise di fuggire per inseguire i suoi sogni. Anche perché in fondo, come ricorda l’epitaffio sulla sua lapide, la vita per essere appagante andrebbe sempre affrontata un po’ da vitelloni: “Finì con la mia terra. Finì col mio violino spezzato. E una risata rotta, e mille ricordi e nemmeno un rimpianto”.

La lapide di Franco Fabrizi a Cortemaggiore (Piacenza)

 

Gianmarco Aimi

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Fumata bianca

Ottobre inoltrato. Comincia che di sera sul balcone mi tocca felpa e cappuccio, ma una sigaretta allo schiaffo dopo una cena sgorrotta ci sta sott’all’osso.

Alfonso è in canottiera. Non conosce ostacoli, il bell’uomo. Lui sul suo, di balcone, io sul mio. Le facce rivolte al palazzo dirimpetto, le braci a giocarsela (ma io fumo più veloce). Ognuno a maltrattare il proprio cranio che c’è sempre una storia da scrivere, un muro da buttar giù, rintanato come un serpente a sonagli sulla tastiera del pc a sfornare merda fumante e a leccare puntine di grammofono al taglio. Il balcone è zona franca. Nessuno invade quello dell’altro tranne che per qualche birra cattiva. Per il resto io là a pensarmela su qualche personaggio a cui amputare un verso, una frase, uno sbocco giulivo e lui, là, a tirare fuori una bestemmia di tanto in tanto, braccia conserte, le dita marrone sotto le ascelle, il raspo della barba che fa un balzo sul doppiomento alla Al Capone.
«È capace che inizio a scrivere per i ragazzi di Write & Roll, Al!»
«Piacere al cazzo, Co’! Tu non lavori con quelle gallinelle, quelle diciassette diciottenni?»

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foto di Luca Rubbi

Una boccata che non so nemmeno se dalla bocca mi esce il tabacco o l’aria ghiacciata. C’ho un tappeto di cimici sotto i piedi. Le stronze hanno folleggiato per tutto settembre e buona parte di ottobre entrandomi finanche nelle mutande indurite. Ora se ne stanno lì per terra, rigide, senza nemmeno il ghigno della morte fresato in faccia. Piccole corazze maleodoranti una appress’all’altra.

«Sì, bello mio, dai quindici ai diciannove!»
«E perché non ti butti addosso?»
«È lavoro, Al, io ci campo. Per me è come il tabernacolo per il prete!»

Alfonso mica lo può capire. Sono decenni che si scopa anche gli scarafaggi e le nutrie che nuotano nei liquami del Seveso. C’ha sessantasei anni, ma si rimbocca il tizzone a manciate di peperoncino di Soverato e sospetto che le pillole azzurre le scambi per tachipirine andate a male. Qualche anno fa l’hanno beccato nella sala caldaie del palazzo che stava brutalizzando una disabile, ma disabile di brutto. L’hanno denunciato, ma ne è venuto fuori immacolato.

«Io mi butterei, Co’, senza bi e senza ba, così, alla chi prendo prendo!»
«Come la vede sta cosa, tua moglie?»
«Che deve vedere? Quella buttana è già assai che non la castigo a calci e sputi!»

Maria se la gioca di prima e ci sta insieme da quasi quattro decadi. Assorbe tutto come un pannolino di quelli della pubblicità e di notte, da come la vedo io, morde le coperte. Ma fumare con Alfonso resta una cosa bella perché non facciamo altro che guardare la facciata del palazzo di fronte, cacciare fumo dal naso e dalla bocca e uscircene di tanto in tanto con qualche stronzata. Che ci volete fare? Ci si accontenta, così, alla buona. Il nostro circo per sfigati attacca solo quando la dirimpettaia abbassa le tapparelle per togliersi la gonna e noi ci fottiamo gli occhi per sgamarla tra le fessure, ma il più delle volte lasciamo perdere dopo aver perso due diottrie a cranio senza aver visto un cazzo di niente.

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foto di Luca Rubbi

«Co’!»
«Ohi!»
«Se lo facevo io il mestiere tuo sai che abbuffate di pesce?»
«Immagino!»
«Non è che sei ricchione?»
«No. E poi nel caso avrei anche alunni maschi e lascio in pace anche quelli!»
«Io, in caso di magra, mi montavo pure a loro!»

Un uomo ecumenico, niente da dire.

Cosimo Argentina

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Considerazioni di uno sconfitto /8

Tutto ciò che so è che qui diventa ogni giorno più difficile. Eli perde il lavoro e se ne va in Messico come cantava Vasco, a Elena il lavoro naufraga nel giro di una settimana, fuori c’è il disastro, vedo gente che rinnega cose che ripeteva da 8 anni per crearsi un personaggio che sia uno, lontano da tv e riflettori vari e dentro ste cose che si chiamano social ma che il sociale lo hanno fatto diventare un concetto tutto strano. La Cri mi scrive che sta un po’ così perché è stata a Parigi e ha avuto l’ennesima storia con un tipo parigino, che vede e frequenta solo quando va lì. Io leggo i suoi messaggi su WhatsApp e non so più niente, niente, tutto ciò che so è che non riesco a vedere più in là di un metro. Precarietà. Mentana dice cose sacrosante cazzo a una ragazza di 23 anni, le spiega che manifestare serve e che la sua generazione (ma pure la mia) deve liberare almeno una mano da uno smartphone o uno spritz e prendere un cartello con su scritto: ora basta. 

È tutto precario da queste parti oramai, è una roba generazionale, relazioni, case, lavori, solo che il più delle occasioni non solo è precario, è pure vacuo. Sterile. Mettiamo insieme e dissipiamo. Occhio alle parole: mettiamo insieme non costruiamo; dissipiamo, non distruggiamo. Come se tutto fosse virtuale, pixellabile, possibile di reset. 

I. 

La mia generazione c’è dentro fino al collo. È tutto più facile (scopare, ad esempio) ma anche più difficile, tutto più etereo ma meno inquadrabile. Non so. Siamo fluidi, non c’importa un cazzo più di niente, come se non stesse a noi, come se non cambiasse la nostra, di vita. Brexit? Ma sì, fino al giorno prima andavamo di selfie ed emoji, poi parentesi Master in Economia, e poi di nuovo selfie ed emoji. Prepariamoci al peggio: tra poco in Italia ci sarà un referendum di portata storica. La cosa che mi rattrista è che tutti i miei coetanei e quelli più giovani di me parlano per sentito dire, la propaganda è l’ultimo trend e uno voterà sì o no – se andrà a votare – solo perché il M5S dirà di votare sì o no o perché Renzi gli sta sul cazzo o perché darà retta ai social influencer, mica perché si è informato e ha sviluppato una sua idea in merito. Qualcuno dirà: ma nessuno spiega bene come stanno le cose. Ma vaffanculo: aspettare il padre putativo che ti spiega cosa pensare è un atteggiamento tipicamente nostrano. 

[pullquote]È tutto precario da queste parti oramai, è una roba generazionale, relazioni, case, lavori, solo che il più delle occasioni non solo è precario, è pure vacuo. Sterile.[/pullquote]

Molti anni fa lessi un editoriale sul Corriere della Sera. Era firmato da un economista all’epoca considerato molto autorevole e indipendente. Diceva: “Dobbiamo rassegnarci al fatto che una intera generazione sia ormai perduta”. Era il 2009. 2009, capite? Quella era la nostra generazione. Chi scriveva si chiama Mario Monti. Aveva ragione.

A San Francisco gli affitti delle case sono saliti di brutto, gli unici a poterseli permettere sono i ventenni che lavorano nel digitale, i 40enni che di competenze digitali reali ne hanno poche, ciao, si fanno da parte. A Milano la gran parte di miei amici di 30-35 anni vive con modalità post universitarie, stanze singole in appartamenti condivisi, gran casini e piccoli acciacchi che cominciano a farsi sentire, gran casini e culi che cominciano a cedere.

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II. 

Precarietà. Sterilità. Immaturità congenita. Spesso mi confronto con gente che l’ultimo modello di Nike ai piedi lo ha, ma se gli mandi un messaggio per parlare come persone adulte di un problema visualizzano e non rispondono. 

Poi ci sono le eccezioni, la situazione non è così piatta ma è complessa, sfumata. Poi per fortuna ci sono quelli tosti, quelli che salutano e se ne vanno in Puglia, quelli che comunque sgomitano. Investire sui propri talenti. Ci hanno insegnato che bisognava avere almeno 6 a tutte le materie. Fanculo. La realtà di oggi ci sta insegnando che se hai un talento devi puntare su quello. Sei bravo a cucinare? Cucina. È inutili che perdi tempo con la matematica. Alla matematica ci arriverai dopo quando capirai che ti servirà per cucinare meglio. Le eccezioni, dicevo. Poi anche tra di noi ci sono quelli che TRAGUARDANO. Traguardare: guardare attraverso gli ostacoli. È il verbo che mi piace di più, che preferisco. Il prossimo numero di Urban lo faremo su questo verbo.

La declinazione si ferma alla prima persona plurale:
Io traguardo
Tu traguardi
Egli traguarda
NOI TRAGUARDIAMO. 

[pullquote]Ci hanno insegnato che bisognava avere almeno 6 a tutte le materie. Fanculo. La realtà di oggi ci sta insegnando che se hai un talento devi puntare su quello.[/pullquote]

A mia figlia che ha compiuto 10 anni e che parla male, ha un equilibrio precario e per lei la vita sarà davvero difficile, ecco lei è la prima persona a cui voglio insegnare il significato di sto verbo. Traguarda, Virgy. Impara a traguardare. Tu che sei precaria come i miei amici, solo in un modo diverso, e che a me di ritorno hai trasmesso tanta solidità e voglia di costruire. 10 anni fa nascevi. Le prime cose di quei giorni che mi vengono in mente: quando esci e ti prendo in braccio e ti dico benvenuta e mi giro verso Ginevra e le dico ” è uguale a me”. Ginevra mi dice smettila e poi la guarda e fa: “oddio, è vero”; che passo tutta la notte a mandare messaggi in una camera al buio su un lettino da ospedale; la faccia di Pablo, che quando ti vede si commuove; i raggi del sole che entrano nella stanza in cui un dottore comunica a me e Ginevra che hai la sindrome Cri du Chat; la telefonata a mio padre quando gli dico trattenendo il pianto che hai una malattia rara e lui risponde come un padre dovrebbe sempre: stai tranquillo, ci siamo qui noi. Poi una bellezza infinita, che dura tuttora. Di fatiche, di lotte, battaglie, di amore, di inquietudini, vere come ciaffate, di momenti di una dolcezza incomprensibile ai più, di comunque vada che vuoi che sia, di incertezze e paure del vuoto. 

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Tutto ciò che so Virgy, è che il caos mi appartiene, che posso essere sublime solo se provo a sconvolgere, che sono in crisi da una vita e forse è proprio questa la mia fortuna, come cantava quello là, che fuori il mondo è buio ma laggiù – se traguardi – esplode di luce. 

Ti ho sognata l’altra sera. Camminavamo, di anni ne avevi 14 ed eri alta come me. Parlavi molto meglio di adesso ma non benissimo. E mi ha fatto strano perché di solito quando ti sogno parli sempre perfettamente, stavolta no. 10 anni fa ero un bimbo. Ora tu sei una ragazzina. Io quasi un uomo. Ora la smetto ok, che poi divento patetico e qui c’è ancora un sacco di strada prima di arrivare. 

Signori, questa è l’ultima Considerazione di uno Sconfitto. Forse. D’ora in poi traguardiamo. È Dedicata a chi si avventura, a chi si informa, a chi vince perché ha paura di perdere, agli sconfitti e a chi sbaglia. Soprattutto a chi sbaglia. 

State all’erta. Basta con sti spritz. 

@moreneria

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La fissa di James Franco per McCarthy

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Questa estate sono tornare a girare le voci sulla versione cinematografica di Meridiano di Sangue diretta da James Franco. Pare che sia solo una questione di tempo per i diritti e che sia coinvolto anche Russel Crowe nell’operazione. Franco non è nuovo a queste imprese, sia perché è affascinato dalla letteratura (scrive, interpreta ruoli di Steinbeck), sia perché McCarthy è il suo “scrittore preferito”. Un paio di anni fa, Franco aveva messo online un test di mezz’ora di adattamento di Meridiano girato con vari attori tra cui Dylan di Beverly Hills  90210 (Luke Perry), Jacob di Lost e il fratello dello stesso regista. All’inizio non mi era sembrato male perché ero così voglioso di vedere Meridiano sullo schermo che sbavavo, poi ho provato a guardarlo. Devo dire che l’aspetto interessante è la regia. Sembra girato con una videocamera del cellulare, ci sono dei silenzi spigolosi, si crea una sorta di effetto paranoia che ti invoglia a smettere di vederlo. Qualcosa quindi c’è, ovvero la narrazione ti porta in un mondo parallelo, ma manca tutto il resto. Poi ho capito…

Manca McCarthy.

Questo post non è fatto per menarcela su un film che è bello o brutto, qui  non ce ne frega niente dei film. Questo post riflette sul fatto che si usa trarre dei film da alcuni libri, di cui in parte abbiamo già parlato  in Film fighi (e no) sugli scrittori. Che ne so Harry Potter è stupendo, non potrei vivere senza Il Signore degli anelli e lo stesso vale per le altre centinaia di film tratti da romanzi. Ma ci sono dei romanzi, ci sono delle opere, che hanno senso solo scritte. Cormac McCarthy è uno che ha rilasciato due interviste in vent’anni. Due. Non è mai apparso in pubblico. Dice solo: per me parlano i miei libri. E il suo silenzio letterario guarda caso è iniziato da una decina di anni, da quando traggono film dai suoi libri. The Counselor, di cui ha scritto direttamente la sceneggiatura, non sembra manco roba sua, è una boiata da seconda serata d’estate su Rete 4.

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Ora lo so che ormai leggere è un’utopia e chiunque vi dica il contrario vi sta mentendo. Leggere come abbiamo letto fino ad oggi adesso sarà sempre più impossibile. Avremo dispositivi vocali che leggono per noi, avremo degli oculus mirati alla lettura, app specifiche, ma smetteremo di leggere come abbiamo imparato. Non abbiamo messo online un post letto da Siri per caso. Perché leggere richiede di stare fermi da qualche parte e staccare da tutto il resto e ormai il concetto di iperconnettività è dilagato in modo irreversibile. Plin Plin un messaggio su WhatAspp, un like su Instagram, poi diamo un occhio alle news, rispondiamo a Coso che ci manda i gattini. Come cacchio fai a leggere? Allora visto che non leggiamo facciamoci passare il senso di colpa di essere i responsabili dell’intorpidimento della nostra fantasia, ormai sollecitabile solo da montaggi serrati, effetti sbalorditivi e ritmi di fruizione tipici delle serie tv o dei film. Meglio le prime. Più fresche, più veloci, più ganze. Ps: io adoro le serie tv o i film ma volevo fare l’insegnante e credo che a scuola dovremmo tornare a dire ai ragazzi che leggere è una esperienza arrapante, che non c’è niente di più appagante che crearsi questo mondo interiore. Avete presente il ragazzino de La Storia Infinita rinchiuso nella soffitta della scuola? Era stupenda l’immmagine del libro che ti rapisce e crea un mondo. Invece di seppellire di compiti a casa i ragazzi (c’è un pezzo magistrale di Mattia Feltri a riguardo) dovremmo fargli leggere di più.Poi si farli giocare anche a No Man’s Sky, fargli guardare i Pokemon e la tv a palla, ma anche leggere. Ma torniamo a Franco.

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Ci hanno provato a fare i film belli tratti dai libri di McCarthy ma nessuno c’è riuscito. Nemmeno Non è un paese per vecchi, che fra tutti è il migliore dei film fatti è riuscito. Forse La Strada, solo è stato degno. Nei libri di McCarthy si viaggia con la mente a ritmi indescrivibili, la sintassi di Meridiano è complessissima, i toni apocalittici della Bibbia aleggiano ovunque e tutto sa di sogno o di presagio. Il Linguaggio arcaico  degli assassini, dei beceri, delle figure popolari, solo a leggerlo vi sembra di richiamare formule malvagie. Vivete per trecento pagin eseguendo il protagonista che si chiama semplicemente Il ragazzo, The Kid, in mezzo a una banda di spostati.

E ora possiamo anche dedicare due righe a Child of God, tratto dall’ominimo romanzo di McCarthy (Figlio di Dio, Einaudi). L’ho visto in inglese perché in Italia non è manco distribuito e mi sono potuto godere l’accento degradato e pazzo del personaggio più degradato e pazzo della famiglia dei personaggi di McCarthy. Lester Ballard è il male incarnato, almeno nella versione libro. La sua cattiveria è seconda solo alla sua demenza. C’è da dire che poverino la vita non gli ha sorriso: è una bestia, è solo, lo sfrattano dalla sua proprietà, tutti lo odiano e lo cacciano a vivere nei boschi in una vecchia capanna. Ma Lester ci mette del suo quando trova una coppietta di ragazzi suicidati in un’auto e decide di scoparsi la morta e portarsela a casa. La tiene nel letto con se, ci parla, la ama, le compra un vestitino e la trucca e poi se la bomba. Detto da me fa ridere, ma quando leggete McCarthy ve la fate sotto, specialmente quando entrate nella grotta con tutte le altre ragazze morte con cui Lester ha deciso di ammazzare la solitudine tenendole in stato di decomposizione per farcisi ogni tanto “un giretto”.

James Franco ci ha provato di nuovo con McCarthy ma ha fatto un film che non potete apprezzare a meno che non abbiate letto il libro e anche se lo avrete letto, non soddisferà comunque le vostre aspettative.

Non c’è niente da fare, ancora nessuno riesce a fare dei film degni dei libri di McCarthy.

Ray Banhoff

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A Calais, con Carrère nella Giungla

L’altro giorno sono passato davanti a una pasticceria, in una via secondaria, in provincia. Mi sono preso un caffè in uno di questi nuovi bar tutti bianchi, tutti un po’ uguali, di plastica e legno che quasi ti fanno rimpiangere la radica. Andandomene ho visto una serie di ragazzi africani che stendevano i panni e bivaccavano in ciabatte di fronte a quello che una volta credo fosse un piccolo ambulatorio e ora li ospita. Ho capito subito che si trattava di alcuni migranti che lo Stato sta smistando tra i vari comuni. Mi ha fatto un po’ male il commento di un signore che era li a fissarli con lo stecchino in bocca: «Guardali, guarda! Per 38 euro al giorno se la spassano alla grande no? Me li dessero a me 38 euro al giorno… pezzi di merda».

Non gli ho dato spago, sono venuto via. Mi sembrava tutto una miseria. Una miseria loro, una miseria il tizio, una miseria sta storia dei 38 euro che mi ha proprio rotto le palle. Non so se fa più male l’ignoranza della povertà. (qui un compendio su bufale simili a queste, se avete un’anima fatelo girare)

Detto questo.

È degli ultimi tempi la notizia della costruzione di un muro a Calais. Il muro a Calais, quello che Trump vorrebbe al confine col Messico, quello di Padova. È un concetto antichissimo, metti su un muro, non permetti alle persone di entrare. Specialmente se le persone sono profughi, clandestini, gente di quei paesi laggiù… Loro però entrano lo stesso, scavano buchi, si intrufolano dentro ai tir con carichi commerciali rischiando di morire. Spesso muoiono.  Online ci sono dei video dei profughi che a Calais assalgono i camion al casello sperando di montare al volo come Fantozzi col bus del mattino. Solo che è tragico.

Quindi c’è mezzo mondo che scappa dal proprio paese e cerca riparo in altri paesi. Questo genera scazzo perché gli abitanti di quei paesi che sono oggetto di flussi migratori cominciano a non averne più tanta voglia. Quindi nascono le tensioni sociali, i Salvini, i vari ignoranti del “mandiamoli tutti a casa loro”.

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A Calais di Carrère è una piccola gemma. Nasce come reportage per XXI, trimestrale francese e giustamente viene distribuito in versione libro. In Italia è portato sugli scaffali da Adelphi. È la storia della sua permanenza al’Hotel  un tempo frequentato principalmente da ricchi inglesi in vacanza, adesso adesso bivacco di transito di giornalisti, documentaristi ma anche sciacalli in cerca di tragedie. La cosa potente del testo è che Carrère riesce a parlare di noi parlando dei migranti. Vengono a galla i pregiudizi, le paure, l’ignoranza (ancora) degli abitanti della cittadina verso gli abitanti della Giungla, la struttura dal nome poco invitante che ospita 7000 migranti. 5000 in più di quelli che può contenere.

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Mi dispiace solo non aver letto qualcosa di qualche scrittore italiano che ne so, su Lampedusa. Si c’è il film di Rosi, ci sono degli editoriali molto belli sui quotidiani, ma non ho ancora visto un lavoro d’insieme sul tema degli sbarchi e dei migranti. Eppure è tutto così alla luce del giorno. La penna di uno scrittore non è quella di un giornalista, ha una funzione diversa. I lati più oscuri dell’animo umano vengono fuori da queste semplici cinquanta pagine, rendendolo un testo fondamentale per capire il presente. Le nostre librerie sono zeppe di narrativa, c’è tanta saggistica sul medio oriente, sulla finanza, ci sono manuali di autostima e testi motivazionali. Però ecco non ho letto un premio Strega, uno, che si occupasse di Lampedusa seriamente. perché oggi siamo tutti pieni di informazioni, di telegiornali, di televisioni, di tweet, ma abbiamo poca gente che ci spieghi questa massa di dati. Gli scrittori, oltre che pubblicare romanzi, potrebbero essere un ottimo mezzo per divulgare questo tipo di sapere. Forse c’è bisogno di rivalutare in società il ruolo dello scrittore. È come se dopo decenni di ideologia (anni 60, 70 e 80) tutto fosse post ideologico adesso. Come se il solo pensiero di essere impegnati culturalmente fosse un concetto che fa schifo. Oggi abbiamo dei romanzieri che scrivono grandi trame fantastiche e plot che portano in una realtà che non è questa. Se parli con qualcuno di arte, ti viene detto che l’arte è solo ciò che ti fa evadere, che crea altri mondi. Beh, lasciatevelo dire, è una stronzata.

Emilio Periferico

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Ti amo, Ibra

“To do my things, I have to score my goals, I have to create the chances to score… to do that, you’ve gotta be a lil’ bit egoistic. ‘cos egoistic is also a quality. If I’m not egoistic, then I’d be a simple player. Now, I don’t see myself as a simple player”.

Zlatan Ibrahimović

Questo pezzo è apparso su Soccer Illustrated

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Come si scrive del proprio eroe? Il rischio è diabetico, c’è la possibilità che venga fuori un cumulo di frasi fatte caramellizzate. Il suo nome è di per sé qualcosa di magico.

Zlatan.
Ibrahimović.
Il centravanti simbolo degli ultimi dieci anni.

Avanti, su, siamo seri. Si parlerà, che so, di Trezeguet tra una ventina d’anni? Di Tevez? Di… Lewandowski? Giocatori favolosi, ok, ma Zlatan è nato per essere un’icona. Un santo a cui votarsi. San Zlatan da Rosengard. Col mio amico Alessio abbiamo fatto una capsula del tempo. Presi dal revival anni ’90 stile Piccoli Brividi, Oasis e Dylan Dog, abbiamo comprato una scatola ermetica di plastica e c’abbiamo schiaffato dentro pezzi di anima e suppellettili da battaglia. Una di queste era la figura ritagliata di Zlatan. Poi abbiamo sepolto il tutto in una spiaggia di Taranto, a un metro di profondità.

Nel tempo, egli vivrà.

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Lorenzo, Londra, anni 90

A 14 anni vivevo nel burough di Hammersmith e Fulham. Anno londinese per una famiglia del meridione appulo. Sono i colpi di testa delle mogli, che di conseguenza si ripercuotono sulla salute mentale dei loro figli ma va bene così. Abitavamo in una casa coi bovindi in stile vittoriano, proprio dietro al Craven Cottage. Quartiere pettinato, ma il sottoscritto era poi costretto a frequentare una scuola ghettizzata ai confini dell’impero: la Hurlingham and Chelsea. Le scuole pubbliche di Londra sono feccia. La mia era tra le peggiori. Risse, spaccio, tentati stupri, tensioni razziali. Un microcosmo fottuto. Io ero grosso, coi capelli lunghi, ero alto e giocavo a pallone. Difensore. Non parlavo una parola d’inglese. Giravo col vocabolarietto in tasca, una volta un negro mi stava sfottendo benché due minuti prima m’avesse aiutato in un esercizio di matematica. Però poi, mentre s’era in fila alla mensa, circondato dai suoi bruvs and fams si fa prendere dalla voglia di bersagliare il più debole e iniziano a strattonarmi, tirarmi la cravatta. Io che faccio? Invece di sbroccare tiro fuori il vocabolario, cerco l’equivalente di leccapiedi e lo chiamo così. “Bootlicker!” quelli a ridere, m’arrivano due tre ceffoni alla traditrice maniera, m’allontano.

Anche Zlatan da piccolo aveva una situazione familiare incasinata. La sorella Sanela spacciava droga, genitori separati, lui andava dalla logopedista perché non parlava un granché bene. Viveva nel quartiere di Rosengard, un ghetto per chi viene da Malmö. Si sentiva inadeguato quando frequentava la scuola di fighetti e giocava nel Malmo, perché lui veniva dal ghetto e rubava le bici agli allenatori e aveva sempre fame; mentre questi biondini svedesi purosangue, ariani a modo loro, c’avevano padri e nonni e macchine sempre pronti a scarrozzarli dappertutto. Lui al primo appuntamento con una ragazza, siccome lei tirava tardi di una mezz’ora, se ne va indispettito. Pensa che l’ha preso per il culo, che l’ha fatto per deriderlo. Ma la tipa era solo su un tram mezzo bloccato da qualche parte.

Insicurezze.

Queste cose potete leggerle nel suo libro Io, Ibra, scritto con David Lagercrantz, forse il miglior esempio di letteratura sportiva che si possa trovare sul mercato. Forse il miglior libro di sempre della letteratura contemporanea.

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A 14 anni io indossavo fisso una maglia di Ibra. Me la facevo nel parchetto e allo youth centre del quartiere, nella zona negra e povera di Hammersmith. Molti della Hurlingham and Chelsea venivano da quella zona di council houses di Hammersmith. I miei tormenti, a scuola, erano Issmael Mellar, Rhyss Cunningham e Tyrone Defaz. Tre negri che sfumavano in tonalità epiteliale. Nel senso: Issmael era tipo arabo, caffellatte; Rhyss un nigga che diresti della Looooouisiana e Tyrone proprio centrafricano, che so, Gabonese, CONGO, quelle terre selvagge là. Mi pigliavano per il culo davanti alle fighe, mi lanciavano le gomme in testa, io non riuscivo a rispondere nemmeno a parole perché NON PARLAVO INGLESE, NON RIUSCIVO AD AVERE LA PRONTEZZA DI RISPOSTA.  “Chiama il preside o la prof!” diceva quel fenomeno di mia madre. Se… e poi mi piantano una lamata nei glutei, altro che le chiacchiere. Avevamo 4 ore di educazione fisica settimanali. Solo football, chiaro. Nessuno mi sceglieva per la loro squadra. Non ero così scarso, a Taranto giocavo spesso a pallone e avevo fatto un paio d’anni di scuole calcio, ma l’insicurezza rallentava e screziava le prestazioni. Ecco perché m’incazzo con chi vorrebbe sparare alla nuca Santon, Kondogbia e compagnia bella. Ma sapete cos’è l’insicurezza?

Ibra passava i pomeriggi nel parco del quartiere a giocare coi ragazzi. Etiopi, altri slavi, tunisini… la Svezia patria delle minoranze. Lui tentava la giocoleria, cosicché in partita potesse sbrogliare noiosi pareggi coi suoi colpi funambolici. Io, nel parchetto di quartiere, palleggiavo. Mettevo su le mie Diadora nere da arbitro Collina, e palleggiavo palleggiavo palleggiavo; chiedevo a chiunque incontrassi se volesse fare una partita. Anche uno contro uno. Provavo i doppipassi, le veroniche, i tiri di collo netto. Il venerdì uscivo da scuola alle quattro, prendevo la bici, facevo 3-4 chilometri fin’a casa, cambio (indossavamo una divisa nero blu di seta con cravatta e tutto), andavo allo youth centre e tornavo all’1 di notte. Non facevo altro che giocare a calcio. Partite, allenamenti, palleggi, semplici scatti palla al piede. Mi guardavo i video di Zlatan vs CR7 della Joga Bonito, in più Ibra segnava a scatafascio, era il primo anno di Mourinho all’Inter.

Zlatan Ibrhaimovic, 2008

Ibra’s feet. Foto di Efrem Raimondi, 2008

Un giovedì c’è educazione fisica. Per qualche motivo, Issmael chiede a Rhyss di giocare contro. Si fanno due squadre, è 8 vs 8. Gioco a centrocampo. Issmael mi dice di legnare, mi mima il piede a martello.

Metto su la divisa da calcio della scuola, le pettorine a noi, e s’inizia.
Prendo spesso palla dal portiere, arrischio finte di corpo fuori dall’area, apro sulle fasce. Gioco a testa alta.
La partita dura un’ora e mezza. Siamo sul cinque a cinque.
Calcio d’angolo per noi.
Issmael m’ha cagato per tutta la partita. Non m’ha dato indicazioni. Quattro dei cinque gol sono stati suoi. E’ forte ma cannuso, cioè tiene la palla incollata alla suola fa’ che c’ha messo l’attacck.
“Get in the fucking box!” mi grida adesso.
E io ci vado, cazzo.
Entro in area.

Un inglese, Charlie, batte. Cross dimmerda, teso ma a mezz’altezza. Vado incontro alla palla. Non so che cosa succede. Mi sento bene. Stacco col piede sinistro, la gamba destra leggermente indietro, e col tacco destro colpisco il pallone. Sembro un Amantino Mancini in sovrappeso.

Io lo so che è gol.
Volo come Zlatan contro il Bologna. Contro l’Italia. Volo.
GOL.
Il prof fischia la fine della partita. 6-5 per noi. Rete da trapezista dell’italiano chiattone
“LO-LO-LO-LORENZO!” grida Issmael, ritmando un coro sudamericano.
Pezzodimmè, vorrei dirgli, ma mi faccio coprire dai compagni di squadra. Preso dalla stizza del momento, vado sotto il naso di Rhyss e gli faccio una linguaccia enooorme, agitando la testa manco stessi ballando sott’effetto di Ketamina. Poi mi metto a fare il gesto da stallone che faceva Luca Toni, la mano che armeggia attorno all’orecchio. E vaffanculo!

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Ibra oggi fa boh 35 anni. Gli Dei non hanno età. Lui non morirà mai. Lui è il giudice Holden del calcio.

Nel suo libro, c’è un pezzo peso. Sta qua nella foto, non lo ricopio nemmeno, è fin troppo potente per i miei gusti. Bisogna essere se stessi. Esplodere di rabbia al momento giusto. Tentare la follia. Sei un tamarro? Fottitene, mettiti pure chiodo di pelle, tuta, e jordan bianche; purché ti senta a tuo agio. Zlatan è Zlatan. Quello del rigore a Julio César, sì, e quello del calcio a Cassano e delle acrobazie contro la Lazio. Zlatan non se ne fotte un cazzo. Zlatan lotta, Zlatan suda, Zlatan se ne esce con un “cazzo guaaardi!” alla bionda di Milan Channel, Zlatan prende per mano l’Inter contro il Parma e mi fa piangere, perché mi emoziono, perché a guardare questo stambecco col fisico di un pugile non faccio altro che provare brividi e sentirmi quantomeno affiliato alla sua cosca.

Il mio gol preferito di Zlatan è anche l’ultimo in maglia nerazzurra. Contro l’Atalanta. Palla in area, lui che FA SALTARE PER ARIA il centrale con una spinta rabbiosa, e di tacco improvviso la scatafascia in rete. Se incontrassi Zlatan penso che lo abbraccerei. E basta, nemmeno una foto. Sarebbe sufficiente quello.

Ti amo, Zlatan. Tanti auguri.

Lorenzo Monfredi

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Le facce di Bob Dylan quando ritira i premi

Ho già letto commenti al veleno e parallelismo del Premio Nobel per la letteratura e il festival di San Remo, in occasione di questa assegnazione del riconoscimento  Bob Dylan. Penso che siano commenti un po’ futili e ingiustificati. Il Nobel ogni anno nomina i personaggi di spicco in diverse discipline. Nei campi delle scienze i vincitori sono sempre dei luminari, dei pionieri. Dylan prende il Nobel per la letteratura, che è di per se l’aria fritta. La letteratura è un pensiero astratto che nella testa mia è una cosa e nella testa di un altro è l’opposto. Non me ne frega niente del premio Nobel. È una di quelle cose che so che esistono ma che non influenza minimamente la mia vita. Delle volte ho letto scrittori che non sapevo nemmeno fossero dei Nobel e mi sono piaciuti. Altri ho provato a leggerli proprio perché lo erano e ho buttato via il libro (gli ultimi due Nobel ad esempio che due palle immani).

Dylan è un caso a parte. È un riconoscimento che gli viene dato in vita, uno dei tanti, per essere stato il più grande in tutto. Lui ha fatto letteratura anche solo passandosi una mano tra i capelli, o scrivendo due righe a caso. Lui è la letteratura. La sua musica è letteratura, i suoi testi, la sua metrica, la sua parlata sbiascicata lo è. Se non avete mai letto niente di suo buttatevi subito in Chronicles. Vol.1 per cui si era già parlato di Nobel subito dopo l’uscita o, se ci riuscite, sparatevi Tarantula. C’è una frase di Nietzsche in Ecce homo, che lo riassume bene «Nei miei libri si respira l’aria delle vette». Questa autobiografia vol.1 che non ha mai visto un volume 2 e per cui non era forse neanche previsto, è uno di quei libri. La sua prosa ce l’hanno solo i grandi poeti americani, poi Faulkner e qualche altro, ma pochi.

Il fatto è questo. Dylan stesso sarà imbarazzato per questo premio, me lo immagino che guarda al cielo come a dire: oh Gesù. Ne ritirerà uno al mese di premi tra lauree ad honorem e riconoscimenti. Sarà imbronciato, farà storie in casa perché non vuole andare a ritirare il premio, farà un po’ il grumpy cat di se stesso. Lo premiano da tutta la vita ma non lo avremo mai premiato abbastanza.  Aspettiamo con ansia il video di quando ritirerà il premio perché quando siamo fortunati si comporta così:

Grammy alla carriera nel 91. Qui al secondo 0.37 scappa e lo prendono per i capelli e lui fa un numero da urlo. «Ehmmmm, siii, mio padre mi disse… (silenzio 5 secondi) mi disse un sacco di cose» e giù tutti a ridere come matti

Qui gli viene chiesto di premiare qualcuno e lui non si cura dei silenzi glaciali che crea, guarda lo schermo scoglionato e poi alla fine procede. Immenso.

Qui sta in piedi fermo a ricevere complimenti, scuote la testa, sbadiglia è visibilmente disperato e niente… non dice niente

Qui c’è la cerimonia della medaglia d’onore consegnata da Obama in persona. Niente, non spiccica parola, sembra un nonno al parco, da una pacchetta a Barack e se ne va in fretta

Qui prende l’Oscar per Things have changed, tutti applaudono pazzi di gioia, lui riesce a ringraziare anche la signora delle pulizie, ma non tradisce un’emozione.

Qui Springsteen gli fa una intro da piangere, lui sale su sbronciola due cose e conclude con un peace & love. Tutti suonano Like a rolling stone e lui sembra voglia solo andare a casa a fare il blues.

Ray Banhoff

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10 cartoline della vita di Dario Fo

Se conoscete Milano, se ci avete vissuto, se ci andate a lavorare, se la odiate, non importa. Se sapete  cosa sia Milano, saprete che c’è una Milano di ora e una di prima. Quella di ora è lo specchio dei tempi, non se ne può dire ne’ male ne’ bene. Quella di prima è una città ancora più divisa, tesa, sede di scontri idologici, politici, terroristici. Ma nella Milano di prima, quella dal dopo guerra agli anni 90, ci sono stati personaggi immensi. Uno ad uno ci stanno lasciando e l’unica vera amarezza è che non vengono mai rimpiazzati del tutto. Non siamo dei nostalgici qui ma dopo Gaber e Jannacci, diamo l’addio a Dario Fo con un album di foto rare per ricordarcelo eterno come quando era in vita.

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Mio padre, prima dell’arrivo del nazismo, aveva capito che buttava male; perché, spiegava, quando un popolo non sa più ridere diventa pericoloso

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Sempre allegri bisogna stare, ché il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam. Ah beh (Ho visto un re)

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La cultura non si può ottenere se non si conosce la propria storia.

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Fermare la diffusione del sapere è uno strumento di controllo per il potere perché conoscere è saper leggere, interpretare, verificare di persona e non fidarsi di quello che ti dicono. La conoscenza ti fa dubitare. Soprattutto del potere. Di ogni potere

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L’uomo senza idee, come diceva Voltaire, è un imbecille.

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La vita è una meravigliosa occasione fugace da acciuffare al volo tuffandosi dentro in allegra libertà

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La risata, il divertimento liberatorio sta proprio nello scoprire che il contrario sta in piedi meglio del luogo comune, anzi è più vero o, almeno, più credibile.

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Il riso è sacro. Quando un bambino fa la prima risata è una festa

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In tutta la mia vita non ho mai scritto niente per divertire e basta. Ho sempre cercato di mettere dentro i miei testi quella crepa capace di mandare in crisi le certezze, di mettere in forse le opinioni, di suscitare indignazione, di aprire un po’ le teste. Tutto il resto, la bellezza per la bellezza, non mi interessa.

 

WNR

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Linus chiude il blog

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Linus chiude il suo blog dopo dodici anni in cui scriveva tutti i giorni. Ora diciamolo con la dovuta educazione: il mondo andrà avanti lo stesso.
Tuttavia è interessante la motivazione che il dj dei deejay adduce. Non è tanto lo stress di scrivere tutte le mattine, non è tanto il non averne più voglia, è piuttosto averne piene le scatole di stare attento a non calpestare una mina.

[pullquote]La soluzione non è l’assenza dai social, ma insegnare sin da bambini ad usarli[/pullquote]

Al Corriere dichiara: «ti metti a cercare un modo per raccontare cose che siano impermeabili alle rotture di scatole. Ma se cominci a togliere materie e temi, inevitabilmente ti rintani». Linus non è un giornalista impegnato nella lotta alla camorra o un esponente politico, è il direttore artistico di una radio. Da una parte un personaggio come lui deve comunicare, dall’altra non si capisce bene cosa debba comunicare. Forse lo fa solo perché crede di doverlo fare, ma è pur sempre libero di farlo, no? Il fatto è che le persone sulla sua pagina Facebook sono come le persone su tutte le altre pagine Facebook, si lasciano andare a commenti offensivi, scaricano i nervi, cercano lo scontro virtuale. Ormai è un costume così radicato che lo conosciamo tutti. La maggior parte dei miei amici ogni dieci giorni mi dice: chiudo tutto, mi fanno schifo i social.

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Io a volte mentre cammino penso che il problema vero sia uno solo, che sia la gente ad essere incline a fare schifo. Non che la gente sia uno schifo, ma che la gente non sapendosi collocare in un contesto sociale, si lasci andare a piccole forme di barbarie. Tipo insultare Linus.
Linus probabilmente avrebbe chiuso lo stesso il suo blog prima o poi, forse ha solo preso la palla al balzo e ha fatto come i miei amici, ha detto basta. Il problema che rimane sul tavolo è: se insegnamo ai bambini a stare in società, se gli insegniamo le buone maniere, se li educhiamo a parlare, a comportarsi, perché non prendiamo in considerazione l’idea di insegnare loro anche a usare internet?
Storia del linguaggio, Grammatica dei social, analisi grammaticale dei periodi di tweet. Lo so che gli accademici muoiono dentro, ma è giunta l’ora di capire che questa roba che tutti aborriamo, siamo noi. O la addomestichiamo o sarà lei a vincere su di noi. Inutile rilegare i social a una vanità passeggera che non ha la dignità di entrare in un’aula universitaria. Se siamo indietro nella comunicazione rispetto ad altri paesi è anche perché lo snobismo culturale fa si che esista “petaloso” ma che un accademico inorridisca quando gli parli di portare Twitter in aula.

WNR

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Andrea Iannone

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Apettando Andrea Iannone. Sono le 18 e 15. Suo fratello Angelo mi scrive: «Tra 20 minuti sono lì», dove lì sta per l’hotel Palace di Vasto, moquette blu e open bar. Ore 18:44, non arriva nessuno. Primo giro di spritz. Ore 19:19, io e il fotografo Giorgio Serinelli ci sdraiamo sui divanetti della hall. Guardo i profili social di Andrea, su Instagram segue ed è seguito quasi esclusivamente da donne in costume da bagno. Ore 19:56, terzo spritz, panini, crostini con zucchine, vino rosso. Ore 20:33, mando un messaggio ad Andrea: «Bello l’albergo eh, ma se non ci venite a prendere il servizio lo facciamo con la moquette blu». Due ore e passa di ritardo. Si mette male.

A Vasto eravamo arrivati alle 17.

Era venuto a prenderci il padre Regalino con una Audi S8 alla stazione di Pescara, 220 all’ora in autostrada parlando dei figli, uno spettacolo. «Angelo è più grande, dell’87. Ha cominciato prima ad andare in moto, Andrea lo seguiva nei paddock, era la mascotte, poi Angelo ha preferito il calcio mentre Andrea è andato avanti. Da quando abbiamo aperto il nostro team in Moto2, nel 2011, lavorano insieme». Angelo è il migliore amico di Andrea, Andrea lo è di Angelo. «Si completano. Angelo è più diplomatico, gentile, Andrea dice le cose come gli vengono, non si preoccupa se ti fanno male o no. Non ha un limite: ha la Lambo, vuole l’elicottero, se gioca a carte vuole vincere pure se non sa le regole. Per dirti, quando Angelo tornava a casa da una partita persa, Andrea gli urlava: “Porca troia! Cosa ci vai a fare?” E si metteva a piangere dal nervoso… È così, deve primeggiare, vuole mortificare gli avversari, ma in questi due anni in Ducati Pramac ha imparato anche a incassare». Non vivono tutti insieme, come i Marquez. «Scherzi? Con Andrea, se tornavi a casa dovevi chiedere permesso, anche se aveva 12 anni. Se no potevi trovarlo coinvolto in qualche scena hard. È sempre stato precoce».

Ore 20:52, finalmente un messaggio di Angelo:

«Sono stato bloccato dal commercialista, perdonatemi. Arrivo». E dopo cinque minuti entra nell’albergo. Baci, abbracci, scuse, «ma di che», «nel frattempo ci siamo ubriacati», «avete fatto bene». Quella che segue è la cronaca di una notte e una mattina passata con Andrea Iannone in giro per Iannonelandia, il suo quartier generale, con le sue auto, i suoi bar, il suo appartamento. Diciamolo chiaramente: questo servizio non sarebbe stato possibile con nessun altro pilota in circolazione, perché nessuno oggi ci avrebbe permesso di invadere la propria privacy come ha fatto Andrea con noi, facendoci entrare in casa mentre ancora dorme – come è successo – o in bagno mentre piscia, e raccontando senza censure la sua infanzia, le moto, il futuro, il suo pensiero sul sesso e sulle donne. Insomma, ecco a voi la vita di un ragazzo di 25 anni che dalla prossima stagione sarà ufficiale Ducati, e che farà sempre più parlare di sé, vedrete.

[pullquote]Al primo giorno di elementari mio padre mi fa: “Se rientri a casa che le hai prese poi le prendi di nuovo[/pullquote]

Angelo ci porta al capannone.

Fuori sono parcheggiati il motorhome di Andrea, la sua Lamborghini e l’Audi RS6 Biturbo che ha in uso, 560 cavalli, una macchina da corsa travestita da familiare. Entriamo, è al telefono, ride, ha jeans stretti, strappati, un paio di sneaker Dsquared, una tshirt larga e una camicia di jeans. Intorno, uno spazio con le moto da pista, da enduro, da cross. «Guavda, qui è una figata» dice con la sua r moscia. «Questa macchinetta del caffè costa un botto, fa di tutto, ci sono i chicchi di caffè da tostare dentro, vedi? Vuoi un amaro?». Ha la spillatrice di Jägermeister. E giù shottini. Lui prende una sambuca. Ci accompagna nel retro, dove ci sono altre moto che usa per fare fuoristrada con gli amici e le prime minimoto usate da lui e da Angelo. Il giro continua in palestra. «Qua dentro ho un impianto stereo della madonna, mi sparo musica a palla e mi alleno. «A Milano ne stavo aprendo una mia in piazza Cinque giornate, però ci hanno tolto l’agibilità al piano inferiore dove dovevamo fare gli spogliatoi e gli spogliatoi sono tutto, capisci? Così adesso stiamo cercando un altro locale». Passiamo dal suo ufficio, poi torniamo verso il biliardino: «A proposito facciamo una partita?». Ok. Io e Andrea contro Angelo e Serinelli. Andrea: «5 a 0 e si passa sotto al tavolo». Ci portiamo sul 4 a 0, poi recuperano e ci battono. Stessa storia con la rivincita. Sempre Andrea: «Mi sono offeso, bastardi, io piango quando perdo».

L’impressione è che semmai dovesse vincere qualche gara o addirittura un mondiale, Andrea esploderebbe.

Il personaggio che potrebbero dipingergli addosso i media è perfetto per attirare attenzioni, polemiche, per finire in prima pagina. Belloccio, l’aria da duro, con la macchinona, vestito alla moda, le amicizie vip, i club privé, il fisico, i soldi, i tatuaggi, gli anelli. Anche se poi, se si va a scavare, Iannone è un ragazzo serio, esagerato sì, ma lucidissimo, maniaco dell’ordine, della pulizia, della precisione, che vuole vincere, stupire, arrivare. «E ce la farò. La gente crede sia uno spaccone, invece sono anni che mi faccio un culo così». Il suo manager, Carlo Pernat, rifugge qualsiasi paragone con Balotelli: «Lui è fuffa. Ad Andrea dategli ancora due anni e ne riparliamo». Prendiamo l’RS6. Iannone racconta che dal 5 dicembre è testimonial sui social network della campagna #guardavanti della Tim per la sicurezza alla guida, lui, che nel primo servizio fatto per Riders, aprile 2012, si divertiva a derapare in centro a Milano. «Ora faccio il serio, se no la Ducati mi strappa il contratto».

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Foto: Giorgio Serinelli

In auto i gradi sono 23,5, è una sauna: «Scherzi? Io non posso vivere al freddo». Ascoltiamo a volume alto Non siamo più quelli di mi fist dei Club Dogo, quando accelera lo abbassa: «Scherzi? Devo tenere tutto sotto controllo, devo sentire il motore». Quando scala l’RS6 fa in automatico la doppietta e scoppietta, il rumore fa godere. Arriviamo al ristorante Angolo di Giada, centro storico di Vasto. Il menu prevede antipasto, primi e secondi di pesce, il tutto accompagnato da una magnum di champagne Blanc de Blancs. Livello: elevato. Cominciamo l’intervista. A Valencia, il tuo box sembrava il privé di una discoteca. C’era Gue Pequeno. «Un pazzo, mi ha inviato le sue T-shirt, ci divertiamo di brutto insieme». C’era Barbara Berlusconi. Non è che… «Ma sei scemo? Era lì col fidanzato». C’era Marco Dell’Utri. «È un mio carissimo amico, fa il produttore». Parlate mai di politica? «No…». Dicono che hai conosciuto Armani. «Mi ha invitato alla sua sfilata, è stata bellissima». Alfonso Signorini. «Ho fatto un servizio su Chi. Ogni tanto ci sentiamo o ci vediamo in qualche locale, ma non è che usciamo insieme». Test di attualità. Cos’è il patto del Nazareno? «Cos’è?». Il patto tra Renzi e Berlusconi per le riforme istituzionali. Renzi lo voteresti? «Meglio Berlusconi». Cos’è l’Isis? «Chi?». Lo Stato islamico. «Che cazzo me ne frega». Unioni gay: favorevole? «L’amore è la cosa più bella che c’è, perché limitarla?». Dicono che ti sono entrati i ladri in casa e ti hanno rubato tutti i Tissot vinti per le pole. «Lascia stare, mi girano ancora». Passiamo alle moto. In un anno la Ducati ha recuperato 30, 35 secondi di distanza da Honda e Yamaha… «Eh, ma gli ultimi sono i più difficili». Chi ti seguirà nel team ufficiale? «Marco Rigamonti, il mio ingegnere di pista, e Tommaso Pagano, l’elettronico». Il merito di questo recupero se l’è preso Andrea Dovizioso, ma dello sviluppo te ne sei occupato anche tu. Ti dà fastidio? «No. Con Andrea mi troverò bene, siamo completamente diversi. Ho fiducia totale in Dall’Igna. Ci ha sempre fatto provare cose diverse in modo tale da farci sperimentare più modifiche alla volta ed essere più veloci nello sviluppo. Continueremo così».

[pullquote]Fino a 12, 13 anni se dovevo andare da una a dirle mi piaci le davo il bigliettino, ero timido, diventavo rosso, perché poi dentro di me son buono, sono un tenerone, ma a un certo punto ho detto, come dico in faccia alla gente quello che penso di loro?[/pullquote]

Dì la verità, ti sei rifatto il naso per una questione estetica… «Ma sei scemo? Nel 2007 sono caduto e mi ero rotto il naso, si era formato un sopra osso che poi nel 2012 mi ha creato grossi fastidi, ho incominciato a russare di notte, respiravo male, avevo mal di testa. Il medico Claudio Costa mi ha suggerito di operarmi, l’ho fatto e ho avuto subito dei benefici, sono sceso pure di qualche battito cardiaco». Cosa non può non fare nel letto una donna con te? «Masturbarsi e masturbarmi». Tu lo fai? «Io tutte le sere prima di andare a letto me ne faccio una». Tutte? Anche prima di una gara? «E certo». Qual è la donna perfetta per te? Sull’iPhone mi fa vedere una foto. «Guarda, una come lei: alta, magra ma non troppo, belle tette». Chi è? «La mia morosa o ex morosa». Siete fidanzati o no? «Dovresti chiederlo a lei se siamo fidanzati o se non lo siamo più, io non l’ho ancora capito». Rimpianti?Comincia a cantare la canzone degli 883: «Nessun rimpianto/nessun rimorso/ancora prima di dormire…». Quanto guadagni? Mi guarda come a dire: ma che domande fai? Dai dillo, 700mila, un milione, due milioni, quanto? Scuote la testa. Dimmi due cose che hai imparato dal primo servizio di Riders a oggi. «La prima: a misurare le parole nelle interviste che faccio con te. La seconda: a dividere la bestia da Andrea. La bestia può vivere solo quando non ci sono le gare e me lo posso permettere. Altrimenti sono professionale, concentrato, una macchina». Prima di alzarci mi guarda dritto negli occhi e mi fa: «Promettimi che domani parliamo di me, non di queste stronzate». Ok.

La cena finisce all’una e passa.

«Venite, vi faccio vedere casa mia» dice Andrea. «Anche se io spesso resto a dormire nel motorhome insieme ai miei amici perché non mi piace stare da solo. Nemmeno essere in troppi, tre o quattro è il numero ideale. Sai quante volte cucino nel motorhome per tutti? Poi magari mettiamo il tavolo da poker nel capannone e giochiamo fino a mattina». Scendiamo a Vasto Marina, parcheggiamo davanti a un nuovo condominio, primo piano. Cinquantacinque metri quadrati più un piccolo terrazzo. Dentro, gli abituali 23,5 gradi. «Vi faccio sentire l’impianto stereo». Mette su i Club Dogo. Alza a manetta. Quasi alle due di notte. Chiedo: ma i vicini? Mi guarda sempre con quell’espressione lì: ma che domande fai? Ci scorta nella zona notte: un bagno e la camera da letto separati da una vetrata. Chiedo: scusa, ma se qualcuno va in bagno viene visto da chi è in camera. L’espressione è la stessa, solo che stavolta commenta: «Certo che si vede». Ah, ok. Angelo mi indica il mosaico di una donna piuttosto sexy nella doccia: «Costa un botto». Andrea mi distrae: «Ma il pezzo forte è questo». Clicca un tasto sul cellulare, da un mobile esce fuori una tv. «Guarda la magia» mi fa. «La tv, se mi sposto al cesso, mi segue». Fammi capire, se vai a cagare il televisore si gira? «Esatto, così se sto guardando una gara non devo nemmeno mettere in pausa». Io sto per piangere dal ridere, Andrea gongola. E si cambia.

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Foto: Giorgio Serinelli

In auto gli dico che la tv che si gira quando va in bagno sarà il mio must per mesi .

«Ah, mi son scordato di dirti che ho pure lo sciacquone che si aziona automaticamente quando mi alzo». In effetti, perché perdere tempo a tirare l’acqua? Alza le spalle. Finiamo la nottata alle 3, dopo aver scritto Iannone Rulz su un muro. Traduzione: Iannone regna, comanda, spacca. A Vasto è così. Me ne accorgo il giorno dopo.

[pullquote]Nei sorpassi oso sempre perché presto arriverà il momento in cui il rischio sarà la normalità e imparerò a gestirlo alla perfezione. Quando sei abituato a osare sei più in difficoltà a non osare che a osare, capito?[/pullquote]

Lo andiamo a svegliare alle 10. Dorme nudo. «Le mutande mi danno fastidio». Stavolta mette su Vasco Rossi, Vivere o niente. Si fa una doccia, passa venti minuti a pettinarsi, poi andiamo a fare colazione alla Pasticceria Vastese. Lo salutano tutti, molti chiedono di farsi fotografare con lui. Andrea non si nega, ma non abbandona mai, nemmeno quando ride, un’espressione seria, da duro. Torniamo nel capannone. Ci sono due ragazzi che lavorano. Sul tavolo a vetro c’è un vassoio di brioche ancora da scartare. «Scherzi? Io devo essere il primo a farlo. Di questo posto so tutto, ogni sera aggiorno l’inventario». Qui c’è la sua storia. «Non c’ho mai fatto entrare nessuno, siete i primi. Ogni volta che mi guardo intorno mi vengono in mente i sacrifici di mio padre per farmi correre. È stato un matto, però vedeva le mie potenzialità e a 14 anni mi fa: “Cosa vuoi fare, continuare a divertirti o ci vuoi provare?”. Perché per competere nel campionato italiano e nello spagnolo doveva pagare 500mila euro. Tutta la famiglia mi diceva, dai, ci devi provare. Così ho detto: ok, proviamoci, e da allora sono sempre stato cosciente, lucido, mi sono sempre divertito ma non mi sono mai drogato, mai, per dirti il sabato sera i miei amici andavano a ballare e io partivo per la gara, oppure loro uscivano da scuola e passavano il pomeriggio in giro, io invece andavo in palestra fino alle 7». Ce li hai sempre quegli amici lì? «Sì, alcuni sono finiti bene, altri… Io in famiglia ero quello messo peggio: Angelo avevo un gruppo di amici tipo i pariolini di Roma, io uscivo con i brutti ceffi. Alle elementari c’erano anche gli zingari. Ora quando passo nelle loro zone mi abbracciano, hanno rispetto per me, capito? Alle elementari mio padre mi ha pure dovuto cambiare di scuola. All’uscita, facevo a botte. Ogni giorno». Perché? «Non lo so. Al primo giorno di elementari mio padre mi fa: “Se rientri a casa che le hai prese poi le prendi di nuovo”. Mio padre non mi ha mai menato, non mi ha mai dato uno schiaffo, mi ha sempre parlato da uomo a uomo, facendomi capire come si affrontava la vita. Poi mi disse: “Ricordati che chi mena per primo mena due volte”.  Quindi se uno mi rompeva i coglioni e cominciavo a discuterci, io partivo subito e lo massacravo. Ero avvantaggiato, facevo kung fu, però in cuor mio mi dispiaceva». E gli studi? «Era una cosa che non mi veniva neanche impegnandomi, non ce la facevo, diventavo scemo, però alla fine non sono mai stato bocciato.

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Foto: Giorgio Serinelli

Ho fatto le scuole superiori alla scuola privata a Pescara con mio fratello, anche perché quando partivo per le gare partiva anche lui, la gara era di tutti. I miei pagavano un pacco di soldi per mantenerci a quella scuola. Mio fratello era da 7, io per imparare una roba dovevo leggerla 12 volte perché mentre la leggevo pensavo ai motorini, a truccare lo scooter sotto casa, a verniciarlo, a come dovevo farlo più figo. E comunque mi han cacciato anche dalla scuola privata. L’insegnante urlava: “Iannone, si dileguiiiiiiii”. Aprivo le camere degli amici con le schede telefoniche, non ci riusciva quasi nessuno, quindi venivano tutti a chiamare me, poi bagnavamo i letti oppure li toglievamo dalla stanza… Per riuscire a salvarmi corrompevo pure il tutor. Il sabato sera non si poteva uscire, figa il sabato sera, ma come si fa? Io e Angelo stavamo al terzo piano di questa struttura e non potevamo scappare, capito? Allora io e Angelo iniziamo a dire al nostro tutor che soffrivamo di vertigini, che ad affacciarci dalla finestra ci veniva il panico, l’ansia, e che dovevamo stare al primo piano. Una volta trasferiti, scavalcavamo e prendevamo il pullman per il centro. Non mi preoccupavo di quello che sarebbe successo, quando ci avrebbero visti rientrare, tanto oramai eravamo usciti…». Anche da piccolo eri così? «Sempre. All’asilo, avevo 4 anni, dovevo andare in bagno… La maestra non mi mandava perché io scappavo in bagno a giocare con l’acqua, schizzavo tutti quelli che entravano. Ma quella volta era vero, dovevo fare la pipì, glielo dissi quattro, cinque volte e niente. Allora me lo tiro fuori e piscio dentro la classe, per terra. Succede un casino…  Chiamano mia madre, mia zia che era una dirigente del comune e si occupava anche delle scuole, gli insegnanti volevano espellermi e quando poi mia mamma è arrivata mi ha dato uno schiaffo, ma io le ho detto: tu hai sbagliato a darmi uno schiaffo, la maestra non mi mandava, me la stavo facendo nei pantaloni e se la facevo nei pantaloni poi tu mi menavi uguale. I miei compagni cominciarono a dire: “È vero, è vero!”. Io sono sempre stato così, posso cazzeggiare cento volte, ma se alla cento e una ti do la mia parola, stai tranquillo che la rispetto».

[pullquote]quella volta era vero, dovevo fare la pipì, glielo dissi quattro, cinque volte e niente. Allora me lo tiro fuori e piscio dentro la classe, per terra. Succede un casino…[/pullquote]

È vero che ti dà fastidio essere toccato? «Pensa che quando ero proprio bambino, il mio cazzo invece di chiamarlo pisello, uccello o altro, lo chiamavo Peppino, tipo quando dovevo andare in bagno dicevo: mamma, Peppino mi sta chiamando… Quando il pediatra provò a toccarmelo, lo fermai e gli dissi: che fai? Peppino lo tocco solo io… Chi? rispose il pediatra… Ancora oggi, quando mi vede mi chiede: Peppino come sta? Tutto a posto? Da bambino ero tremendo: mio padre ci portava a saltare sulle dune a 180 all’ora con la Delta, poi una volta non riuscivamo più ad uscire perché pioveva e io gli ho detto: vedi papà, cosi la prossima volta t’impari. La prossima volta t’impari, capito?». Tuo padre racconta che se devi dire una cosa non ti preoccupi se faccia male o meno. «Fino a 12, 13 anni se dovevo andare da una a dirle mi piaci le davo il bigliettino, ero timido, diventavo rosso, perché poi dentro di me son buono, sono un tenerone, ma a un certo punto ho detto, come dico in faccia alla gente quello che penso di loro?».

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Foto: Giorgio Serinelli

Per andare a pranzo passiamo dalla casa storica degli Iannone.

Sul garage c’è ancora la scritta 29, il suo numero. Poi al bar conosciamo la madre, un’elegante donna sorridente che non frequenta i paddock solo nelle tappe italiane. Mentre mangiamo torniamo a parlare di corse. Gli faccio notare che lui è uno dei pochi, insieme a Marquez e a Valentino, che appena vede un buco prova il sorpasso. Altri come Dovizioso o Pedrosa magari studiano prima la situazione poi quando sono sicuri si buttano dentro. «È vero, ma spesso a fare come piace a me, si paga; io lo faccio perché presto arriverà il momento che il rischio diventerà la normalità e imparerò a gestirlo alla perfezione. Perché quando sei abituato a osare, sei più in difficoltà a non osare che a osare. Capito?».

Nel caso non lo avessimo compreso a dovere,

suo padre ci fornisce una ripassata pratica del concetto. Dobbiamo essere alla stazione di Pescara, sul treno per Milano, alle 16:15. Partiamo da Vasto, 80 chilometri di distanza, alle 15:45. Prevedo: «Mi sa che lo perdiamo». Papà Regalino sorride: «No no, tranquillo». Ci fermiamo pure a fare benzina. Ripartiamo alle 15:53. Regalino spinge fino a 260, ma lo fa in modo talmente naturale che io e il fotografo, per qualche minuto addirittura ci addormentiamo. Alle 16:15 siamo sul treno. Mando un messaggio ad Andrea: «Tuo padre è più pazzo di te». Risposta: «Iannone Rulz».

@moreneria

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