The National
I The National sono uno di quei gruppi che vado a vedere solo perché ho un amico come Orlando che mi coinvolge in queste cose. Li conosco grazie a lui, sono nel mio iMusic, ma di andare a vederli in concerto non mi sarebbe mai passato. Quando vai a vedere un concerto di un gruppo con il quale hai questo rapporto la situazione è perfetta perché arrivi lì con zero aspettative e ti si apre un mondo. Un mondo composto fuori e bastardo dentro, pieno di contraddizioni, paradossi, slanci. Il leader dei National è proprio così: vestito di nero, barba curata, occhiali da art director di Monocle, uno che fuori potrebbe anche darti l’idea di noia ma che dentro ha un caos e tutto questo caos te lo trasmette pure. La sera prima di abbracciare Agata ero al concerto e Matt Berninger (così si chiama) fa due cose che non avevo mai visto fare durante un concerto. La prima: scende dal palco col microfono, va vicino alle transenne della prima fila, le scavalca e va tra la gente continuando a cantare, abbracciando le persone, anche loro incredule, e annullando qualsiasi distanza tra cantante e pubblico, anzi diventando lui stesso pubblico perché le persone le abbraccia, le fa cantare nel suo stesso microfono, e tutto questo avviene per una canzone intera, davanti agli altri che guardano basiti i mega schermi e dicono: non ci credo, non ci credo. La seconda succede quando all’ultima canzone Matt riduce quella stessa distanza a qualcosa di appena percepibile, perché resta sul palco e abbandona il microfono, girando il palco da una parte all’altra cantando a voce aperta insieme a tutti noi. E canta Vanderlyle Crybaby Geeks.
A casa
Quando rientro a casa è questa la canzone che è sul mio cellulare, ed è con questa canzone che mi abbraccio e mi dondolo con Agata. In quei momenti ho pensato a al procuratore Mino Raiola, un tipo molto discusso che una volta mi disse: “Se non hai mai conosciuto Pavel Nedved come l’ho conosciuto io, non puoi ritenerti un uomo fortunato”. Mi è tornata in mente questa cosa perché durante l’abbraccio ho pensato che nessuno può ritenersi felice se non ha provato ciò che ho provato io in quel dondolio. Agata mi ha dato anche un confetto di tela improfumato e un disegno: io e lei, uno accanto all’altra, lei più bassa e io più alto, entrambi con le gambe lunghe e il busto squadrato, lei aveva un cuore in mano. “Questo cuore te lo do a te ed è pieno di cioccolatini”.
Siamo sempre lì: i figli ti danno tutto in un secondo che vorresti renderlo scultura e ammirarlo ogni due ore, invece tu rimani fermo senza parole e lei, Agata, si è già girata. Veloce. Più veloce. Inesorabilmente. E quando provi a prenderla da una spalla per baciarle la guancia ti manda via con la testa.
In asse
Questa estate su Internazionale ho letto l’intervista al premier neozelandese, una donna di 33 anni incinta. Si rammaricava che sarebbe tornata subito al lavoro dopo aver partorito lasciando la figlia al marito in paternità. Parlava che qualche mese prima aveva incontrato Obama e a lui aveva rivolto una domanda: ma come fai tu a fare la vita che fai da 8 anni, con le tue figlie che le vedrai sì e no 5 minuti a settimana? Come ti smazzi il senso di colpa? Obama le ha risposto in un modo che ha lasciato esterefatta lei e me che stavo leggendo. Obama le ha risposto: dai il meglio. Fanculo alla mediocrità. Se devi sacrificare qualcosa, qualcuno, tanto o poco, che tu faccia Obama o un rappresentante di prodotti sanitari, il Ceo di una multinazionale o il sommelier, dai il meglio. Il massimo. Semplice no? Non lasciarti rimpianti dietro. Dai il massimo, sempre, punta a fare il meglio che puoi. E lo fai per te, e lo fai per loro, ed è come farlo per tutti. Non sempre sarà possibile, non raccontiamocela, capiterà di lasciarsi andare, ma avere un riferimento ci aiuterà a portare in asse la strada. Sempre. Ci farà da navigatore.
Il gioco e la matematica
Sul braccio ho tatuato No Rules but I believe in play and math. Quando Orlando ha cominciato a giocare a calcio su un quaderno gli ho scritto le 7 regole. Io ho giocato a calcio una vita e ho capito che al di là di tutti i difetti che può avere ogni singolo sport due cose, allo sport, non gliele toglierà nessuno, che sono meritocratici (puoi essere simpatico, paraculo, antipatico, sincero, bugiardo, ciò che vuoi, ma alla fine una cosa sola vale soltanto: il campo) e che come ti fa crescere dentro non c’è altra cosa, perché in ogni sport ci sono competizione agonismo spirito di squadra e ci sono le regole del gioco. Però le regole esistono fin quando qualcuno non le supera e le riscrive, dalla fisica ai parlamenti, dai giochi alla matematica. E le 7 regole sono queste:
1. Divertiti. Per divertirsi bisogna vincere o lottare per vincere perché non ho mai visto qualcuno divertirsi in qualcosa dove perde sempre
2 Per vincere o lottare per vincere bisogna impegnarsi ogni giorno
Migliorarsi
Sbagliare e riprovare
3. Se qualcuno ti dice che una cosa non la sai fare e tu vuoi farla impegnati di più, fallisci meglio
4. Nulla è impossibile
5. Alla fine quindi ti diverti solo in ciò in cui ti impegni e ti diverti solo se ti impegni
6. Divertiti
7. Impegnati
Magari smette domani di giocare a calcio. Magari no. Ma queste valgono sempre. Se uno si diverte si impegna, e uno si impegna solo se fa qualcosa che lo diverte. Se non è così fatevi due domande, se non è così qualcosa non torna.
Stamattina ho portato Agata a scuola per il suo primo giorno. Ora è mezzanotte passata, sto scendendo dal treno, mentre lei dorme, mentre tutti dormono ché mi pare di essere l’unico sveglio su sti binari di Milano.
Divertiti.
Impegnati.
Annulla le distanze.
Dai il meglio.
Questo volevo dire.