Archivi del mese: Luglio 2015

Sir Bob Cornelius Rifo

Sir Bob Cornelius Rifo. Simone Cogo, per l’anagrafe, nato a Bassano del Grappa, classe 1977. Se non sapete chi sia, probabilmente, è dal 2007 che non andate a ballare. Perché Bob, con la sua maschera e con il progetto The Bloody Beetroots, è uno che la gente, nei club, ce l’ha fatta tornare di nuovo. Un insieme di artisti, quello di cui fa parte, che ha inventato un nuovo modo di pensare alla musica elettronica. Nu-rave l’hanno chiamata, dance-punk, electro house, electro e basta. Al solito, le definizioni non funzionano. Con lui – e con Tommy Tea, l’altra metà del progetto, fino al 2013 – c’erano i Crookers, Congorock, i Soulwax, Boys Noize, Surkin, gli artisti della Ed Banger Recrods (Justice, Busy P, Mr. Oizo, SebastiAn, Cassius), solo per citarne alcuni, oltre a Steve Aoki e la sua Dim Mak, con il quale, lo stesso Bob, ha poi dato vita al side project Rifoki e per la cui etichetta è tornato a produrre di recente. Un movimento, una vera e propria scena, in cui a c’entrare non c’era soltanto la musica, ma anche la moda, l’arte, alcune riviste. Quella cosa lì è stata come un’esplosione, i cui effetti si sono propagati lentamente, fino a toccare il pop – Congorock ha aperto una serie di concerti di Rihanna, i Crookers hanno lavorato con will.i.am, Lady Gaga ha fatto ampio uso di alcuni suoni tipicamente “Bloody” (il famoso Hoover Sound), giusto per fare qualche esempio – per arrivare persino a San Remo.

[pullquote]Nei backstage succedevano le cose peggiori. Ma anche le più belle. Glen Friedman ha ripreso a fotografare live, proprio durante una nostra serata. Erano anni che scattava soltanto nuvole[/pullquote]

Nel caso non lo sapeste, infatti, da quest’anno Bob vanta in curriculum anche un secondo posto al Festivàl della Canzone Italiana, in coppia con Raphael Gualazzi. L’ennesima declinazione di un progetto musicale che, in quasi dieci anni, è mutato in continuazione, in preda ai guizzi creativi del suo ideatore. Nel 2010, il primo bivio: The Bloody Beetroots si divide in The Bloody Beetroots Dj Set e in Death Crew 77, spin-off live che vede coinvolti anche il batterista Edward Grinch e Dennis Lyxzén dei Refused e che, in seguito, muterà il suo nome in The Bloody Beetroots Live. Il 2013 segna il lancio di una piattaforma social, The Real Church of Noise, tuttora attiva, e il cui nome deriva dall’omonimo tour datato 2011, mentre, nell’ultimo anno, Bob, ha portato in giro il suo dj set con il nome di SBCR. È nell’attesa di una delle sue ultime esibizioni che lo incontriamo, in uno splendido relais nella campagna veneta. «Ehi, ciccio», mi dice – Bob chiama tutti ciccio (o ciccios, quando parla in inglese). Mi stupisce, si ricorda di me. È dal 2009 che non ci vediamo. «Un po’ di barbe fa», mi dice. Un po’ di capelli fa, più che altro. L’anno prossimo sono dieci anni di The Bloody Beetroots. «Dobbiamo pensare a una festa. Magari per il 2017». Ma non ti sei rotto le palle di fare sta vita? «Questa è la mia vita». Lo sai che c’è gente che sta organizzando delle feste a tema, con la musica di quando avete iniziato. «Ho visto qualcosa, sì. Che bellezza. E sai cosa? L’electro in generale sta tornando. Ti consiglio di tenere d’occhio la Kannibalen Records, ad esempio». Non è che sta cosa di fare le serate con la musica del 2008 dipende dal fatto che è tutto fermo da allora? «Il fenomeno nato in quegli anni è collassato su sé stesso. Si è vomitato addosso con l’arrivo di quello che io chiamo il “mostro americano”. Qualcosa che veniva dal cuore è stato trasformato in puro business e il suono si è evoluto verso una direzione sempre più becera». Anche nel periodo in cui è emerso il progetto Bloody Beetroots esisteva il mainstream, però. «Sì però il sample di partenza era completamente diverso. Justice, Mstkrft, TBB, Aoki. Tutti noi venivamo dal punk rock, avevamo vissuto sulla nostra pelle il grunge. C’era rimasto dentro qualcosa di ruvido che ci ha permesso di fare musica con la cassa in quattro senza dimenticare le nostre radici». E però in questi anni non è venuto su niente di spontaneo ed equivalente. «No e credo dipenda dal fatto che il sample di riferimento è cambiato. Il pubblico di oggi, abituato alla Progressive House – erroneamente confusa con la EDM – non ha neppure idea di chi siano i Justice. WARP, in qualche modo, ce la fa ancora sul main stage di un Festival come l’EDC, per esempio, ma siamo davvero al limite. Sono cambiate le carte in tavola». A proposito di Warp, hai detto di aver cercato di prenderne le distanze. Come mai? «Ma, sai, credo che ogni artista, nel momento in cui realizza una grossa hit, senta il bisogno di staccarsene. Si tratta di un episodio. Io non ho mai pensato di costruire la mia carriera su Warp. Ho sempre cercato di diversificare, di smontare e ricostruire il progetto mille e duecento volte. L’ho fatto con The Bloody Beetroots dj set, poi con Death Crew, con Church of Noise, con The Bloody Beetroots Live e adesso lo sto rifacendo con SBCR». Da dove nasce questa esigenza? «Dal bisogno di evolvere, di mutare, di cambiare pelle in continuazione». Accade anche nella tua vita privata? «Assolutamente». In che maniera? «Schizofrenia? [ride] In realtà, allo stesso modo. Cambio idea continuamente». Sul fatto di stare a Los Angeles non hai mai cambiato idea, però. «Questa cosa dello stare a Los Angeles è stata piuttosto fraintesa, in Italia. Se guardi il calendario dei miei eventi, il tempo che passo a Los Angeles è minimo. È molto più importante quello che succede nel mezzo. È nel mezzo che si crea quella distorsione che mi obbliga a tradurre in musica ciò che provo e ciò che vedo». Si dice che i Soulwax, dopo aver girato ininterrottamente per due anni filati (esperienza da cui uscì il documentario Part of the Weekend Never Dies) fossero completamente distrutti. Tu non senti il bisogno di fermarti? «Di sicuro il come ti relazioni al tuo corpo gioca un ruolo fondamentale, per fare questo tipo di vita. Io non bevo, non fumo, mangio sano e quando suono…faccio attività fisica!». Questa è L.A. che ti ha rubato l’anima. «No, in realtà no. Credo arrivi per tutti un momento in cui è necessario decidere se abbandonarsi al rock’n’roll e concludere la propria esistenza in un backstage o se provare a viversela in maniera completamente diversa. Io ho scelto la seconda strada». A che ora ti svegli la mattina? «Verso le otto e mezza, mai più tardi delle nove». E poi che fai? «Faccio una buona colazione e mi metto a fare musica fino alle otto di sera. Mi fermo per pranzo». Quindi questa vita di apparenti eccessi nasconde in realtà un lato quasi monastico! «Ma guarda che ci arrivano tutti prima o poi». Da quanto tempo è così? «Da gennaio 2013». Ho letto che in quel periodo hai anche smesso di fumare. Cos’è successo? «Credo fosse semplicemente un atto dovuto nei confronti del mio corpo. Sai quei momenti in cui decidi di dare una svolta? Volevo essere più sano, riuscire a pensare meglio e più velocemente. Volevo essere più concentrato». Fino a quel momento non era stato così? «Non è mai stato il devasto totale, da parte mia». C’è un video che gira di una delle prime volte in cui siete stati alla Webster Hall. Quel periodo, almeno dall’esterno, era veramente il rock’n’roll totale. «Grande serata. Se non sbaglio non avevamo neanche i bassi sul mixer quella volta. Un’ondata di violenza white noise assoluta». Ecco vedendo un video come quello uno si immagina che nel backstage…«Succedesse di tutto?». Ma sì! «Ma in effetti succedeva di tutto in quegli anni». Tipo? «Tutte le più brutte cose che puoi pensare. Ma anche le più belle». Per esempio? «Una volta Glen Friedman si è convinto a fotografare proprio la Webster Hall, durante una serata della Death Crew 77. Erano anni che fotografava solo nuvole. Ha deciso di riprendere a fotografare “live” proprio quel giorno. È stato molto emozionante». Tommy ha mollato in quel periodo. «Diciamo che il progetto è andato concentrandosi sempre più sull’aspetto musicale. È difficile continuare a sentirsi a proprio agio quando non sei né un musicista né un vero e proprio dj. La credibilità di un progetto è subordinata a scelte precise e io scelgo sempre la musica».  Non ti mancano casa, i tuoi genitori? «Sì, certo». Ogni quanto riesci a tornare? «Non c’è una frequenza regolare. La mia vita è impossibile da pianificare. Ma adoro la mia famiglia, la mia terra. Cerco di tornare il più spesso possibile». I tuoi hanno capito cosa fai, finalmente? Secondo me sei andato a San Remo solo per poterglielo raccontare. «Sono andato a San Remo solo ed esclusivamente per quello». Tipo «Mamma, vado a San Remo, sono un musicista»? «Sì, sì, l’ho fatto solo per la mia mamma». Che esperienza è stata? Cos’hai notato? «Di sicuro che in Italia la televisione comanda». Cosa vuol dire? «Che la musica viene messa in secondo piano». E poi? «Che si tratta di un “organismo” molto vecchio. Nella green room a malapena riesci a sentire la musica degli altri. Credo che sia un meccanismo molto frustrante, per un artista in gara». Non riesco a immaginare quanto stress possa provocare salire su un palco ed essere osservato da milioni di persone. «Ma io non faccio testo, ho sempre una maschera addosso». Se svieni dall’emozione non fa molta differenza. «La maschera ti protegge. Si è ricamato molto sull’iconografia legata a questa scelta ma la verità è che si tratta di un qualcosa che serve soprattutto a questo. In ogni caso, io non ho mai sofferto la tensione. Anzi, sul palco mi sento molto a mio agio, è il mio parco giochi». Credi di aver contribuito a ideare un nuovo modo di starci sopra, durante un dj set? Lo stage diving, il fatto di occupare la consolle in una certa maniera, erano tutte cose che nessuno aveva mai fatto fino a una decina di anni fa. «Può darsi ma non credo di aver inventato nulla di nuovo. Anche questo deriva dall’iconografia rock’n’roll. Io, probabilmente, l’ho esasperata. Vedi, il mio modo di mixare è sempre stato più vicino al modo di usare una chitarra, che a quello di un giradischi. Cioè, a me è capitato di dare fuoco a un cdj, capisci? Io però non mi definisco un disc jockey. Non l’ho mai fatto e non lo farò mai. Craze è un dj, Jayceeoh è un dj. Sicuramente non io. Io sono un tizio mascherato che mixa a tempo, con in testa una chitarra elettrica e un fuzz». Non credi si sia ecceduto nel senso opposto ormai? Tante persone, ad esempio, pensano che il tuo amico Steve Aoki abbia messo insieme un carrozzone che di musicale ha ben poco. Che poi funzioni è un altro discorso. «Te l’ho detto, quando il mostro americano arriva, trasforma tutto. Con questo non vorrei essere mal interpretato. Credo che, musicalmente parlando, l’EDM, identificata con quel suono “big room” pieno di “zanzare”, sia abbastanza brutto da sentire. Oltre alla bruttezza c’è la ripetitività, perché lo suonano un po’ tutti. Non è neanche una questione che ha a che fare con il famigerato “drop”, secondo me, perché quello c’è dai tempi dei Nirvana, anche da prima.

[pullquote]Io mi sono sempre fatto i cazzi miei. Non ho cambiato il mio status sociale grazie alla musica. Non è per questo che la faccio e non è per questo che l’ho mai fatta[/pullquote]

È proprio il fatto di aver standardizzato uno spettacolo che sta diventando sempre lo stesso. Aoki lo fa meglio degli altri ed è stato l’unico della “scuola” nostra che è riuscito a trovare un ruolo all’interno della macchina EDM per sfruttarne il business. Circa il fatto che si sia persa di vista la musica di qualità sono completamente d’accordo ma credo anche che, per chi non conosce Steve, sia molto difficile comprendere ciò che fa». Come mai? «Io che ci ho a che fare tutti i giorni so quale sia il suo interesse nel preservare la buona musica. Lo fa con operazioni molto diverse tra loro. Cerca di spingere artisti minori, di fare degli esperimenti, con la sua Dim Mak Records. A Ibiza, quest’anno, proveremo a suonare solo cose wave. Lo faremo in cinque, in back 2 back. C’è l’assoluta volontà, da parte sua, di spingere prodotti di qualità. È chiaro che il suo spettacolo è un’altra cosa. Si rivolge alle masse ed è quello che ci vuole per il suo personaggio. Lo Steve Aoki dj show è un business e lui è un ottimo imprenditore. Molta gente dice anche che Steve non è in grado di mixare. Steve mixa ed è pure molto bravo a farlo. Credo che la sua più grande dote stia proprio nella sua capacità di ragionare su più livelli. Quello è il suo vero talento». Com’è stato lavorare con Paul McCartney? Ansia da prestazione? «In realtà l’ho vissuta molto tranquillamente. Conoscevo Youth per aver lavorato con lui sul progetto Church of Noise. Lui è il bassista dei Killing Joke. Ha prodotto musica per un sacco di gente – dai Verve, ai Guns N’Roses, a Marilyn Manson – e, appunto, ha lavorato con Paul McCartney. Un giorno stavamo chiacchierando ed è venuto fuori il suo nome tra quelli che avremmo potuto coinvolgere per il nuovo album di The Bloody Beetroots. Ma assieme al suo è venuto fuori anche il nome di Penny Rimbaud, per dire, che magari qui non se lo caga nessuno perché non è altrettanto conosciuto, o quello di Peter Frampton, che in America è un personaggio pazzesco. Per me, che vengo dal punk, lavorare con il batterista dei Crass è stato tanto incredibile quanto lavorare con Paul! Quando è venuto fuori il suo nome ho pensato: “Ok, iniziamo! Facciamolo subito!”. Quel giorno in studio è stato fantastico. Anche perché se non la prendi in totale tranquillità è impossibile arrivare alla fine della giornata con un buon risultato. C’è bisogno di obiettività da entrambe le parti. Devi essere così furbo, così professionale e così dedito alla musica da riuscire a dire cosa ti piace e cosa non ti piace. E chi hai davanti deve fare lo stesso. Perché altrimenti poi io mi porto a casa della merda, tu non sei contento e io faccio la figura del coglione». Quindi c’era la possibilità che tu dicessi a Paul che quello che stava facendo non ti piacesse. «Ma sì, ma deve essere così! Senza mancare di rispetto a nessuno, eh. È la musica e la musica va costruita insieme, se si decide di farla insieme». Su cosa stai lavorando adesso? «Sul progetto SBCR. Sto sperimentando nuovi suoni e sto scrivendo musica con tutto quello che mi capita, senza riserve. Voglio aumentare le mie abilità come produttore e voglio capire che direzione intraprendere, in futuro, con The Bloody Beetroots. E per farlo devo passare attraverso SBCR. Quindi, nuova musica, nuove estetiche, nuovo show». A te non serve staccare, quindi, per ricaricarti. Non ti serve mollare tutto e andare in India, per dire. Devi esserci dentro fino al collo, alle cose. «In realtà in India ci sono stato. Ho suonato a Mumbai tre mesi fa e, in questo periodo, sto producendo un pezzo ispirato alle slums, chiamato Saint Bass City. Credo, comunque, di avere bisogno di persone e di luoghi. Dalle persone si può attingere sempre molta linfa». Sei religioso? «A modo mio sì». In cosa credi? «Non lo so ma penso che esista un’entità che ci governa». C’è una religione o una filosofia a cui fai riferimento? «Sono battezzato, ho fatto la comunione e anche la cresima. Ho avuto un’istruzione prettamente cattolica. Ma ho comunque una visione personale della spiritualità». Pensi mai alla morte? «Certo che ci penso. È per questo che voglio utilizzare questo tempo per lasciare delle tracce. Nella mia carriera d’artista ho sempre parlato del mio percorso di sperimentazione come di una ricerca. Gli esseri umani, quando nascono, iniziano subito a chiedere il perché delle cose. Io non ho mai smesso. Più esploro il mondo e più sento viva questa esigenza e il bisogno di tradurre in musica quello che vedo, anche soltanto per averne memoria». Quanto è stato importante crescere in una famiglia come la tua? «L’educazione che ho ricevuto è stata fondamentale per affrontare questa vita. È ferro, è acciaio temprato. Credo non sarei sopravvissuto un solo giorno se non l’avessi avuta». Sei sempre stato in buoni rapporti con i tuoi genitori? «Sì, direi proprio di sì. C’è stato qualche attrito quando ho cominciato a dedicare tutte le mie energie alla musica, invece che studiare». I tuoi volevano che studiassi? «Sì, i miei sognavano per me un percorso decisamente più rassicurante». Tipo? «Le classiche cose “sicure”: dottore, commercialista, avvocato». Fino a che età ti vedi su di un palco? «Fino a che le ginocchia mi reggeranno [ride]». È credibile un Bob Rifo cinquantenne? Alla fine, tutto il giro di dj storici di Ibiza è imbullonato lì da vent’anni. «Sì, è vero, ma io forse sono un po’ borderline rispetto agli altri dj». Ti calmerai un po’ anche tu, prima o poi! Un giorno ti troverò a fare chill out in una saletta del Pacha. «Ma io ci ho provato! Avevo davvero voglia di calmarmi ma non ce l’ho fatta». Tipo mixer che volano dopo cinque minuti? «Sì, tipo. Non riesco a calmarmi, devo fare qualcosa di brutto [ridiamo da un po’, nel caso non fosse chiaro]». Probabilmente ha a che fare con quello che mi dicevi prima, con la linfa che trai dalle persone. Ti immagino nel privè di una discoteca circondato da gente di cinquant’anni a cui non frega un cazzo di quello che stai suonando. E non ti immagino a tuo agio. «Hai inquadrato perfettamente la situazione». Le case discografiche ti hanno mai chiesto di cambiare? «Le case discografiche ti chiedono sempre di cambiare». Cosa ti hanno chiesto esattamente? «Di diventare più mainstream». Come dice Marra: «vendi ai dodicenni che quella è l’età». «Di sicuro, catturare l’attenzione delle nuove generazioni è un modo per garantirsi un futuro professionale più longevo. In realtà io mi sono sempre fatto i cazzi miei. Se ho voglia di fare della musica pop è perché ne sento l’esigenza, perché ho scritto qualcosa di pop che mi piace e in cui credo». La discriminante diventa sempre il poterlo fare, il poterselo permettere. «La discriminante è il volerlo fare. Il punto di partenza, secondo me, è la volontà di esprimersi. Io non ho cambiato il mio status sociale grazie alla musica. Non è per questo che la faccio e non è per questo che l’ho mai fatta». Non ti interessano i soldi? «Se ci sono non ci sputo sopra, ognuno ha i suoi conti da pagare, la propria “economia” da mantenere. Ma non è quello il motivo per cui faccio il musicista». A San Remo te ne avranno dati un sacco, no? «Io non ho preso una lira da San Remo. Sono stati spesi un sacco di soldi per produrre il pezzo, questo sì. Abbiamo usato i cori, le trombe, scritture, intere sezioni. Tutto investito in musica. Sicuramente mi ha fatto diventare un po’ più popolare, in Italia, ecco. Ho fatto tre spettacoli in più nel giro di un anno. È un buon punto di partenza». Avresti potuto essere più spesso in televisone? «Ci sarebbe stata la possibilità, sì. Ho fatto quella cosa con X-Factor solo perché me l’ha chiesto Victoria. Ma se non ci fosse stata lei probabilmente non mi sarei mai avvicinato a quel mondo». Ti piacerebbe prendere il posto di uno dei giudici? «Potrebbe essere interessante sedersi a quel tavolo ma forse finirei per lanciare roba o dare fuoco a qualcosa, prima o poi». Ti immagino a Buona Domenica, seduto sullo sfondo, con la maschera addosso. Sarebbe stata la cosa più punk del mondo. «L’ho pensato anche io ma ho preferito andare avanti con le mie gig. Non potrei mai cancellare un mio spettacolo per andare in televisione».

@giovane_albert

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Massimo Fini

Detesta calze, scarpe e ideologie. Anche l’whiskey gli fa schifo, ma ne ha bevuto da ammalarsi. Non fuma nemmeno più, le sigarette adesso le mastica. Un giornalista, uno scrittore, un drammaturgo, un cieco. Un Edipo a Colono scarruffato che sputa nomi, cognomi e anatemi.  Massimo Fini ha infastidito per quarant’anni l’intellighenzia italiana come un quadro osceno che non sai dove piazzare: né a destra, né a sinistra, né al centro del salotto. Un maestro di bestemmie in bello stile, uno che la cravatta l’ha indossata solo al casinò, uno che ci ha messo e rimesso la faccia (segnata), lo stomaco (gonfio), gli occhi (svuotati). Uno che, alla roulette truccata della cultura italiana, ha puntato tutto su se stesso. E ha vinto? La risposta è in Una vita – Un libro per tutti. O per nessuno (Rizzoli), il suo addio alla penna.

 

 

“Ciao, accomodati di là” Fini mi indicò il salotto, e il suo cellulare squillò: “Dio cane!” fece. Alzò il telefono: “Giorgio, scusa, sto iniziando un’intervista, ti richiamo tra due ore”.

Tre pareti della stanza erano occupate da scaffali di libri divisi per argomento: sociologia, letteratura francese, diritto e così via. Mi sono seduto di fianco a una vecchia roulette, su quel divano sdrucito e rosso che, come Fini racconta in Una vita, ha ospitato tanti protagonisti della cultura italiana degli ultimi decenni, e tante donne.   

Bestemmia spesso?

“Spessissimo. È importante.”

Perché?

Scalzo, spettinato, si era seduto di fronte a me, accanto alla lettera 32 appoggiata per terra: “Perché ti libera. E ti dà forza.”

In che senso?

Sopracciglia e palpebre erano rimaste mobili, vivaci ma, dentro, gli occhi non mettevano più a fuoco, erano persi: “L’altro giorno, in piscina, dei ragazzini mi avevano rubato il costume dall’armadietto, che avevo lasciato aperto. Ridatemelo, dicevo. E loro niente. Ridatemelo, e loro sghignazzavano. Ridatemelo porco dio! E me l’hanno ridato.”

Non è contraddittorio bestemmiare per chi non crede in Dio?

“Un po’. Però io non sono ateo, sono agnostico. Insomma, come diceva quel francese, se Dio esiste si è nascosto molto bene.”

E lei l’ha cercato in ogni singola persona che ha intervistato, in ogni reportage dal Sud Africa o dall’URRSS, nell’amore, nei libri, ovunque .

“Sì, l’ho cercato tutta la vita, come Ingmar Bergman. Ma un Senso non l’ho mai trovato. Per questo, al di là di riconoscimenti e successi, mi considero uno sconfitto. Sono stato accompagnato fin dall’infanzia da una specie di occhio spalancato, che valutava tutte le mie azioni, tutti i miei pensieri. Una condanna.”

Non si è chiuso proprio mai?

“Sessant’anni fa dei ragazzi stavano molestando un nostro coetaneo, in pratica handicappato. Lì, l’occhio si è chiuso per un attimo e ho rotto il naso al loro capoccia con un cazzotto.”

Altri esempi?

“A volte si chiude quando nuoto nel mare. Posso addirittura usare una parola proibita, “felicità”, e dire che in rari momenti della vita l’ho provata accanto a una donna o a mio figlio.”

E poi c’è stato l’alcol.

“Sì, quando bevi molto l’occhio si annebbia, ti dà un po’ di scampo.”

Che cosa beveva?

“Soprattutto whiskey, che mi ha sempre fatto schifo. Eppure ne scolavo dieci di fila, mentre giocavo a poker e fumavo. Sono smodato in ogni passione, da quella per il mullah Omar a quella per le donne” si rigirava tra le labbra una sigaretta spenta.

Non l’accende?

“La rumino, non fumo più.” Buttò sul tavolo un pacchetto di Gauloises rosse. “Ma continuo a spendere un sacco di quattrini per comprarle.” Sul pavimento erano sparse tre o quattro sigarette spezzate.

E beve ancora?

“Cerco di limitarmi. L’alcol è un amante geloso. Prima, poco alcol, tanta ebbrezza e pochi postumi. Poi, tanto alcol, poca ebbrezza e tanti postumi. E alla fine arriva la depressione, di cui ho sofferto per periodi più  meno lunghi fin dai primi anni ‘80.”

Mai stato dallo psicologo?

“Mi hanno obbligato ad andarci. Poi, un giorno, gli allungai le centomila lire per la seduta e lui mancò la presa. Si chinò per raccoglierle e gli vidi l’elastico bianco della mutande. Non ci misi più piede.”

 

[pullquote]bianco della mutande. Non ci misi più piede[/pullquote]

 

Perché?

“Il re nudo, capito?”

Al di là della finestra svettava la Torre Diamante, un grattacielo in vetrocemento di 140 metri e, giù in fondo, il Bosco Verticale: i simboli architettonici della Milano del futuro.

Certo che è un bel contrappasso, per un antimodernista come lei, che glieli abbiano costruiti proprio davanti a casa.

“Lasciamo perdere, pensare che una volta vedevo le Alpi. Tanto è solo questione di tempo.”

Che cosa?

“Il così detto progresso ha i giorni contati, ormai lo sanno anche i palloni ad aria. La crescita infinita esiste solo in matematica, non nella realtà. I reggitori del mondo stanno solo cercando di rinviare il collasso di qualche anno, di intorpidire le acque, per andarsene all’altro mondo in pace, altrimenti li impiccherebbero al palo.”

E poi cosa succederà?

“Si pagherà un pieno di diesel con una gallina e tre uova, le città si svuoteranno e i più avveduti saranno i primi a barricarsi in qualche casolare di campagna con i kalashnikov e la terra che dà frutti tutt’attorno a loro. Un nuovo feudalesimo europeo. Oppure una guerra atomica.”

Quale dei due scenari preferirebbe?

“Il primo, almeno gli indigeni delle isole Andamane si salverebbero.”

E con Isis come la mettiamo?

“Se fossi un potente della Terra riconoscerei il Califfato, che ormai è una realtà incontrovertibile. Poi cercherei di trattare e, se supera i confini stabiliti, avrei un motivo valido per muovere guerra. Del resto, tutta quell’area è stata suddivisa arbitrariamente in stati artificiali dal colonialismo. Che diritto abbiamo noi di contestare la loro riorganizzazione territoriale? I talebani però sono un’altra cosa.”

In che senso?

“Da quando il mullah Omar prese il potere, nel 1996, avrà rilasciato in tutto sei comunicati. In uno di questi ha dichiarato che non ha alcuna intenzione di allearsi col Califfo. Non sopportava neppure Bin Laden, l’avrebbe anche fatto fuori a patto che gli USA se ne assumessero la responsabilità, ma Clinton rifiutò. Non fu coinvolto un solo afgano nell’attentato delle Torri Gemelle, le barbarie subite dai prigionieri di Isis sono lontane anni luce dalla mentalità degli afgani, che infatti non si sono mai macchiati di delitti simili, ma offrono un trattamento umano ai nemici catturati. Sono gente sanguigna, di cuore, per cui l’ospitalità è ancora un valore. Ma se gli stai sulle palle meglio girare al largo.”

Sotto la camicia jeans aperta, indossava una maglietta decorata da una testa di moro, simbolo della Corsica. Lo stesso simbolo risaltava anche sui sette accendini sparpagliati sopra al tavolino del salotto.

Un po’ come i corsi?

Sì, sono afgani minori. Amo la loro isola, così selvaggia, e mi ci rifugio spesso. Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 gli indipendentisti hanno fatto saltare qualche Club Mediterranée, e i corsi si sono tenuti la Corsica.”

A proposito di attentati, nel suo libro sostiene che gli anni di piombo sono stati una lunga propaggine del ’68, tipicamente italiana.

In Inghilterra il movimento antisistema degli anni ’60, tra Beatles e minigonne, è stato neutralizzato, inglobato dalla società. In Italia il muro contro muro delle istituzioni ha radicalizzato e prolungato di dodici anni la contestazione.”

Che cosa le è rimasto più impresso degli anni del movimento studentesco?

Il fatto di aver capito già da allora quanti militanti di Potere Operaio, poi ribattezzato Molotov e Champagne, avessero più lo scopo di diventare direttori del Corriere, come Paolo Mieli, che di rifondare la società. Mi ricordo ancora di come uno dei leader del Movimento Studentesco, credo Criscione, sfogliasse le foto di assemblee e comizi, commosso, come una vecchia zia che consulta l’album di famiglia. Intuivi con chi avevi a che fare da come si comportava con le donne. Michelangelo Spada, uno dei capipopolo della Statale, fregò la ragazza al povero fratello di Ivan Della Mea, il cantautore, facendo semplicemente valere la propria superiorità gerarchica. Se penso a come le cose si sono evolute, dal ’68 a oggi, rimpiango soltanto di non essere nato figlio di un terrorista, come Luca Sofri, o della vittima di un terrorista, come Mario Calabresi.”

Lei fa nomi e cognomi, sempre. Lei ha collezionato 23 processi per querela, tutti vinti. Lei, per caso, rimpiange pure qualche rapporto personale compromesso dalla sua intransigenza polemica?

Per un agnostico la coerenza verso se stessi resta l’atteggiamento più vicino alla fede: non mi pento di nulla. Forse di come sono andate le cose con Vittorio Feltri. Gli rendo il merito di avere sempre pubblicato qualsiasi cosa gli proponessi. Anche quando ho scritto che avrei preferito essere un talebano, un comunista, un fascista, piuttosto che aver vissuto sessant’anni nella democrazia italiana. Ma, in fondo, non rimpiango neanche questo. Feltri ha l’etica di una biscia. Quello del giornalista è invece un mestiere che dovrebbe basarsi proprio sull’etica.

Ha ancora senso quel mestiere? C’è qualche suo collega in attività che rispetta?
Leggo poco i giornali: un veleno. E in internet c’è troppa roba: dieci cucchiai di minestra ti sfamano, cento ti ammazzano. Rispetto qualche inviato di esteri, che sta in mezzo al pericolo e consuma ancora le suole delle scarpe, come Fausto Biloslavo del Giornale e Lorenzo Cremonesi del Corriere.
Ha collaborato col Fatto Quotidiano fin dalla fondazione: che ne pensa di Marco Travaglio?

Marco e io siamo agli antipodi. Il giornalismo è questione di recule, cioè la giusta distanza che bisogna tenere da un quadro per coglierne particolari e visione d’insieme. Io sono stato sempre troppo vicino alle persone, ho sempre messo in secondo piano il politico, l’industriale, il criminale rispetto all’uomo. Travaglio sta troppo distante, si scorda che sotto il pregiudicato, il ministro o chi per lui c’è comunque un uomo che soffre. Anche sotto Berlusconi.

E di Matteo Renzi che cosa pensa?

Almeno Berlusconi era buffo, ridicolo, forse umano troppo umano. Renzi è arrogante e basta, nessuna crepa.

Ha dichiarato che non scriverà mai più per via dei suoi problemi alla vista. Ne è davvero sicuro? Non ha paura del vuoto?

Terrò comizi, conferenze, mi farò intervistare, che vuoi che ti dica. Ci sarebbero dei marchingegni in grado di farmi scrivere anche da cieco. Però mi chiedo che senso abbia scrivere quando non puoi neppure cogliere i lineamenti di un volto. Accetto il mio destino e credo nel destino, anche se solo alla fine puoi giudicarne l’intera la parabola.

Non è incazzato con la natura?

La natura non è né madre né matrigna, è amorale. Mi fanno ridere gli uomini che provano a immischiarsi. Qualche anno fa delle balene si erano perse nel mare di Bering, e alla fine si sono arenate sul pack. È stata addirittura mobilitata una rompighiaccio sovietica per salvarle, hanno sparato agli orsi polari che volevano mangiarsi un cetaceo con la polmonite. Che senso ha? Gli eschimesi guardavano allibiti. Ecco, io non vorrei mai farmi compatire dagli eschimesi.

Enrico Dal Buono

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